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Riscoprire l’attualità dei grandi classici si fa oggi necessità incombente per riuscire a sopravvivere in una società corrosa dal primato della tecnica. La forza del classico si libera dal creatore e parla nel tempo, comunicando un disagio diverso da quello del passato, ma sempre più disagiato, adatto ai tempi oscuri nei quali viviamo e nei quali le cose soggiogano gli uomini. Avere consapevolezza dei limiti della ragione, ma saperli anche colmare di quell’immaginazione creativa, che (forse) solo gli uomini possiedono, diventa la chiave di accesso ad un nuovo modo di pensare ecologico.
Che cosa sarebbe, infatti, la vita tutta, una volta definita da una formula matematica, da un teorema? Ad aprire questa rubrica è Teorema, film del 1968, diretto dal regista italiano Pierpaolo Pasolini. Il Teorema, che Pasolini ci impone è = data una famiglia borghese tradizionale (padre, madre, figlio, figlia e domestica), se un elemento estraneo vi entra portando con sé la forza scandalosa del sacro, essa entra in crisi.
A Milano, nel non luogo per eccellenza -simbolo del Miracolo industriale- la routine anonima e meccanica vissuta da una famiglia borghese, è distrutta per sempre da un ospite straniero, che si rivelerà allo stesso tempo carnefice e salvatore dell’intera famiglia. La sua missione è distruggere l’idea che ogni componente della famiglia ha di sé, rivelando tutta l’illusione sulla quale si fonda la propria “vita danneggiata” (direbbe Adorno), condannando quell’immagine di uomo dall’animo risentito che colma con ostinazione il suo vuoto esistenziale con soluzioni effimere.
Il risentimento -come il risultato di una continua competizione per l’affermazione di sé– è l’espressione della smania competitiva tipica borghese che caratterizza i protagonisti. I personaggi finiscono per perdere le loro singole identità per confluire in una panacea in cui tutti diventano antagonisti e nello stesso tempo perfetti sosia, scatenando una crisi mimetica. Tutto ciò che fino ad ora era solido, evapora. Assistiamo alla “crisi radicale del domestico” come la definiva l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino. E così la crisi della famiglia si rivela in rapporti ambigui, dove il luogo protetto del focolare domestico diviene trappola mortale in cui il dialogo la collaborazione, la fiducia reciproca vengono degradati a mero utilitarismo. Il mancato compito pedagogico familiare a sua volta non è nient’altro che il simbolo di una altra crisi nella crisi, quella istituzionale.
La storia della società capitalistica è stata ed è tutt’ora contraddistinta, infatti dalla tendenza alla pianificazione geometrica, che troppo male si adatta ad un mondo ed un Essere in continuo divenire. Il “profeta” Pasolini, con questo film, ci annuncia con molti anni d’anticipo che è giunta l’epoca delle “passioni tristi” in cui si vanno destabilizzando, flessibilizzando e precarizzando in modo irreversibile tutte le “solide” certezze su cui si era a lungo potuto contare: lavoro, tempo, spazio, verità, stato, comunità.
L’apocalisse che caratterizza questo tempo è una apocalisse culturale anomala, una apocalisse che presenta la sola faccia del disastro. La crisi non si verifica più in momenti critici o in circostanze eccezionali ma sembra aver assunto, oggi, un carattere permanente. Nella società dell’egocentrismo economicista, descritta da Pasolini, l’uomo perde la sua natura creativa per confluire nella dimensione ristagnante della società di massa. La razionalizzazione delle biografie individuali ha preso gradualmente il posto del finalismo religioso, creando uno spazio vuoto presto colmato dalla frustrazione dei desideri. L’eclissi della religione però non sancisce la scomparsa del sacro e la necessità dell’uomo di riferirsi ad una dimensione spirituale dell’esistenza.
E Pasolini, consapevole di questa necessità incombente, manda Dio tra gli uomini. Un Dio Profano e straniero che si fa spinta generativa, capace di svelare gli orrori di una vita ipocrita e senza valori. A quella famiglia e alla società tutta, si accusa la carenza di sensibilità, meraviglia e immaginazione sintomi di una più grave malattia sociale in cui si assiste allo sfacelo della comunione uomo-natura. L’unica a sopravvivere alla spinta delirante del risentimento, quello che ha portato all’autodistruzione dei protagonisti tra catatonìa e isteria, è la sorte di Emilia, la serva. Una volta fatto l’amore con Dio, la donna esplode all’improvviso e agisce, scappando via, via dalla cattiva coscienza di un mondo borghese che non le apparteneva. Ripercorrendo la strada che la riporterà a casa, ritroverà sé stessa chiamando attorno a sé l’umanità superstite. Emilia comprende che per vivere aveva bisogno di quell’agape disinteressato che soltanto la vita autentica del mondo contadino poteva donarle.
E così fra i silenzi assordanti delle preghiere, quella piccola pazza, diventerà un miracolo, morendo per gli altri. Ricordandoci che la morte dei poveri non è mai arida, ma è un ritorno nel grembo della madre terra, un diventare un tutt’uno con essa. E questo non può che farci ricordare che il seme evangelico deve necessariamente morire nella terra per germogliare e dare molto frutto. E così, elegantemente, Pasolini affida nelle mani di una donna il mistero cristologico capace di tramutare il risentimento in un desiderio di cambiamento radicale.
Maria Cristina Mazzei
Bibliografia:Renè Girard, Il risentimento, Raffaele Cortina Editore, Milano 1999
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