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L’alba di quel 29 novembre ebbe più le sembianze di un tramonto. Tramonto dell’umanità. La violenza delle truppe a stelle e strisce colpì duramente un accampamento di circa seicento nativi americani membri delle tribù Cheyenne e Arapaho situato in un’ansa del fiume Big Sand Creek. L’attacco avvenne da parte di settecento soldati della milizia statale comandati dal colonnello Chivington, De André lo descrisse il generale dagli ‘occhi turchini e giacca uguale’.
UN PASSO INDIETRO
Nel febbraio 1861 venne stipulato il trattato di Fort Wise tra il Commissario agli Affari indiani Greenwood e un gruppo di capi Cheyenne e Arapaho, con il quale i nativi rinunciarono a circa due terzi dei loro territori, accettando di stanziarsi in una zona compresa tra i fiumi Arkansas e Big Sand Creek in cambio di un pagamento consistente. Anche dopo la stipula del trattato molti nativi americani restarono esattamente dove si trovavano. Probabilmente perché non vennero comprese le clausole del trattato, perché non si fidavano dei bianchi o semplicemente perché non avevano intenzione di obbedire agli ordini dei soldati americani.
Ma i nativi americani pagarono un prezzo altissimo ai presunti ‘civilizzanti’.
A quel punto il colonnello Chivington cominciò a reclutare uomini per attuare il massacro. All’alba, durante l’assalto, il capo anziano Pentola Nera, issò una grande bandiera americana, a testimonianza degli accordi siglati. Rassicurò le tribù, convinto che i soldati non avrebbero fatto loro dei male. Così come il capo tribù Cheyenne Orso Magro andò disarmato incontro ai soldati per trattare la pace: cadde a terra fucilato. Qualche ora dopo la riva del fiume era un cimitero. I pochi sopravvissuti vennero mutilati, scalpati, le donne oltraggiate.
Non fu solamente un genocidio quello dei nativi americani, ma una distruzione culturale: etnocidio. In precedenza si ricorse anche ad armi batteriologiche: alla fine del 1400 in Europa le epidemie di peste, vaiolo, tifo e morbillo mietevano vittime a ritmi incredibili, così si pensò di esportarle con l’intenzione di provocare una naturale estinzione di massa dei nativi americani. Insomma, non fu di certo un massacro silenzioso. L’uccisione passò prima attraverso il dissesto dei territori vitali, poi da guerre batteriologiche contro le deboli difese immunitarie dei popoli indiani.
Dopo aver creato gli stati uniti d’America sulla pelle e col sangue degli indigeni, queste vicende storiche si riflettono nelle condizioni di vita dei nativi americani: negli anni successivi subirono un trasferimento obbligato nelle città, nelle quali si crearono veri e propri “ghetti rossi”. L’indiano era un cittadino vittima di una segregazione razziale in ambito lavorativo, scolastico, medico. Ad oggi sono scarse le informazioni riguardanti le comunità dei nativi, forse è da interpretare come un campanello d’allarme, anche se ne è scongiurata un’estinzione fisica.
Si stima che gli indiani negli Stati Uniti siano circa 5 milioni, con 567 tribù riconosciute. Molti vivono nelle riserve (appezzamenti gestiti dai nativi e riconosciute dal governo federale), e circa il 30% abita in città.
Quel che è certo che questo stigma alimenta nel tempo la lotta per una sopravvivenza soprattutto culturale. Lo stereotipo ha attraversato i secoli ed è ancora vivo e ardente tra noi: l’eroe bianco che ha combattuto l’invasione del ‘popolo pellerossa’, ‘coloro che nascondevano l’oro’, ‘i selvaggi dal viso scuro e spietato’.
EROI?
Già nel 300 a.C. vediamo gettare le basi del moderno razzismo, ma proprio nel Medioevo prese nuova forma, fondendosi con il concetto di colonialismo. In particolare, le scoperte di coloro che sono da sempre incorniciati come eroi alimentarono la diffusione di una coscienza di razza. Sin dalle prime pagine di storia che ci assegnano da studiare alla scuola primaria, ci vengono presentati come valorosi protagonisti, in una versione dei fatti univoca e insindacabile. Ma con quale spirito sono state compiute le opere di conquista? Il bianco salpato oltreoceano non rappresentava forse l’oppressore, con l’ossessione per l’assoggettamento e l’intento di sottomissione?
Quella del Sand Creek è una delle tante pagine buie della storia degli Stati Uniti d’America, oltre che un capitolo del libro nero della colonizzazione europea delle Americhe: un brutale genocidio che ha segnato la morte di milioni di persone e la cancellazione di culture millenarie. Un massacro mosso dalla vigliaccheria di dominatori privi di umanità, da un sistema colmo di barbarie culturali e sociali.
“Si pensava che noi indiani saremmo scomparsi tanto tempo fa. Eppure eccoci qui. La nostra prole è sacra. Ogni bambino indiano è rinato Cavallo Pazzo. Uccideteci pure, tanto lo spirito non muore. Rinascerà nel prossimo bambino indiano e in quello successivo. Ognuno di noi è l’ultimo indiano, così come ognuno di noi è il primo indiano. Potete ucciderci, ma noi siamo qui, per sempre.”
Leonard Peltier, La mia danza del sole. Scritti dalla prigione, Roma, 2005.
Greta Contardi
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