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Cosa c’entra il terremoto dell’Irpinia con gli Squallor, la band demenziale attiva negli anni Settanta e Ottanta? Un legame si concretizza in un brano specifico, ma procediamo per gradi. Il 23 novembre abbiamo ricordato i 40 anni dal devastante terremoto dell’Irpinia, il sisma che raggiunse sette gradi della Scala Richter, causando tremila morti e 280 mila sfollati, colpendo tre regioni su una superficie di 17 mila km2. Un disastro storico.
Sono state trasmesse pressoché su ogni canale immagini di repertorio e le invettive di Pertini sui ritardi nei soccorsi, così come è rimbalzata ovunque la prima pagina de Il Mattino – all’epoca diretto dal compianto Roberto Ciuni – con quel “Fate presto”, titolo cubitale divenuto persino opera pop-art ad opera di Andy Warhol. Quello che è mancato, a reti unificate, è stato un approfondimento sullo strascico culturale del terremoto, ovvero sulle opere che sono derivate sulla scia del sentimento suscitato dal sisma irpino.
Certamente un nugolo di comuni arroccati tra le montagne dell’appennino non ha lo stesso hype di New York e di “Fragile” di Sting, ed è altrettanto comprensibile che la questione non sia finita in una qualche pellicola americana ad alto tasso di effetti speciali, ma qualcosa la si poteva mostrare. Si sarebbe potuto citare senza dubbio “È una domenica sera di novembre”, documentario appositamente realizzato da Lina Wertmuller per la Rai, così come si sarebbe potuto trasmettere il brano “È sempre sera” di Pino Daniele, che dura novanta secondi, esattamente come quel terribile terremoto. Quasi certamente, non sarebbe potuto passare in onda un brano dedicato al movimento tellurico che per quanto complesso e completo, è soprattutto da considerarsi scandaloso. Stiamo parlando di “Jammucenne”, traccia che chiude l’undicesimo album degli Squallor, “Tocca l’albicocca”.
Il rock demenziale degli Squallor
Breve excursus: gli Squallor sono uno dei gruppi maggiormente underground della musica italiana. Una sorta di demone mai abbastanza scacciato dall’establishment delle sette note tricolori. Erano in quattro: Totò Savio, Alfredo Cerruti, Giancarlo Bigazzi e Daniele Pace. Tutti musicisti e produttori discografici, così tanto immersi in quel mondo da aver scritto brani celebri come “Rose Rosse”, “Gloria”, “Cuore matto”, “Ti amo”, “Maledetta Primavera”, “E la luna bussò”, “Ci vorrebbe il mare”, “Si può dare di più” e “Gli uomini non cambiano”, salvo poi decidere – ad un certo punto della loro carriera coincidente pressappoco con gli anni Settanta – che ne avevano avuto abbastanza di quell’industria, e scegliere di darsi alla coprolalia più sfrenata, quella che non avrebbero mai potuto permettersi nel mondo paillettato che abitavano quotidianamente, per quello sfogatoio culturale che sono stati gli Squallor. Per dirla con le parole dell’appena scomparso Alfredo Cerruti, parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima.
Da quel momento, quasi per caso, inizia l’avventura degli Squallor, band che nonostante la “potenza” delle menti da cui nasceva, non riusciva a trovare spazio in radio (a ragion veduta), se non in quelle alternative e libere, ma riuscì comunque a crearsi un seguito fidato, uno zoccolo duro pronto ad entrare nei negozi di dischi e chiedere al malcapitato commerciante “Pompa”, “Vacca”, “Troia” o “Palle”. Nel 1985 esce “Tocca l’albicocca”, anticipato da un teaser ad opera di Ranuccio Sodi, che andava in onda tassativamente dopo le 23 sulle emittenti commerciali. Il disco si apre con “Usa for Italy”, scimmiottamento satirico di “Usa for Africa” (conosciuta anche come “We are the world”), in cui i quattro tramite la voce di Totò Savio, chiedono a Michael Jackson e Bob Dylan di scrivere una canzone per raccogliere fondi in favore delle popolazioni meridionali.
Il brano, grazie ad una musicalità trascinante e quanto mai contemporanea rispetto al pezzo indicato, e soprattutto grazie all’assenza di volgarità nel testo, riesce ad ottenere persino qualche passaggio radiofonico. Nel disco si trovano altri capisaldi della produzione del gruppo napoletano, come “Guatemala Guatemala” e la sbandata sovietica del rampollo Pierpaolo. Poi, si chiude con il brano di cui sopra, “Jammucenne”, sul tema del terremoto che solo cinque anni prima aveva colpito la loro terra.
La notte squallida del terremoto
Parla di una famiglia napoletana che, sentita la scossa, si precipita in strada. Pace, Bigazzi e Savio affrescano con tinte corrosive, su un tappeto fin troppo anni ‘80 una storia comune in quella notte, al grido di Jammucenne ca ‘o palazzo sta tremmann’. È una notte convulsa, in cui si fanno i conti con gli anziani che vivono nelle case di proprietà, e che spesso sono impossibilitati a muoversi (ecco, diciamo che nel testo questa situazione è descritta in maniera meno gentile).
Una notte in cui non mancano tentativi di sciacallaggio: Vide si fujenn’ acchiapp’ na tivvù mentre si cerca di farsi largo tra le costruzioni già fatiscenti, cui il sisma ha dato la mazzata finale: Statt’accuort’ a quann’arape ‘o purtone, sta carenn ‘o balcone. La soluzione è quella di riversarsi in massa sul lungomare a Mergellina, come accadde nel 1943 per sfuggire ai bombardamenti durante le Quattro giornate, alla fine delle quali Napoli si poté dichiarare la prima città liberata dal nazifascismo.
E come in quell’occasione, la fuga a ridosso del mare coincide sia con l’arrivo degli aiuti, ‘e mmerican ch’è Camèl, sia con la consapevolezza che la salvezza può significare dover dire addio a casa propria, dichiarata inagibile. Quest’ultima parte è resa con una metafora che richiama addirittura le marocchinate, ovvero gli episodi di violenza perpetrati dai goumier, soldati marocchini appartenenti all’esercito francese le cui “abitudini” sono descritte da Alberto Moravia e Vittorio De Sica nella scena culminante de “La Ciociara”. Il rischio tuttavia, va corso pur di non restare sotto le macerie: n’ata scoss e c’appezzammo pure ‘e penne,visto che la situazione non accenna a placarsi: accorto, fa n’ata scossa, né, chella grossa.
Chi sarà curioso di ascoltare il brano, si accorgerà anche di quello che in questa sede non è stato raccontato, di alcune rime “rivedute e corrette” per non rendere il commento scurrile. Si sappia però, che la trivialità dei testi degli Squallor corrispondeva ad una precisa esigenza di ribellione alle regole democristiane in cui ogni giorno si muoveva il mondo dell’arte frequentato dai componenti della band. Cuore della questione rimane la mancata legittimazione che i quattro hanno ricevuto in vita, come artisti volutamente sopra le righe allo scopo di dare una scossa all’interno sistema discografico italiano. La stessa scossa rappresentate nel brano, e che al di là di quanto si riesca a comprendere, fornisce uno spaccato quanto mai vivido e reale dell’ansia e della preoccupazione che hanno vissuto le popolazioni interessate dal disastroso terremoto dell’Irpinia del 1980.
Mario Mucedola
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