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“Per mestiere e per passione racconto storie”. Abbiamo incontrato Saverio Tommasi. È l’impavido intervistatore di piazza, che pone domande tanto scomode quanto ovvie nelle più disparate manifestazioni. Spesso ci siamo stupiti di come abbia mantenuto l’autocontrollo di fronte alle tesi bizzarre e alle aggressioni verbali più violente. Al volto di Fanpage però, sembrava di non fare abbastanza, così ha intrecciato le sue storie con quelle di decine di altre persone, trasformando il suo impegno in attivismo. “Per mestiere e per passione racconto storie. Lo faccio come giornalista e come scrittore, realizzando reportage video e scrivendo libri […]”. Nel 2019 ha fondato Sheep Italia, un’associazione che arriva a chi ha bisogno partendo da chi ha bisogno. Si insegna a intrecciare la lana, si instaurano relazioni, si condividono i propri percorsi di vita e poi, si prova a riprenderla in mano, mentre le coperte realizzate vengono destinate ai senzatetto, come ultimo atto di un progetto che si nutre di tutte le storie che la lana tesse. Alla fine, non resta solo un’opera di carità, ma una comunità ampia. Da Sheep Italia ai reportage per Fanpage il filo conduttore è la voglia di Saverio Tommasi di essere parte attiva nella società.
Sheep Italia. Pieno di colori, un progetto giovane, ma che ha già mille storie da raccontare. Scrivi che l’idea è stata in gestazione per quattro anni. Com’è nato tutto?
Cercavo un modo per poter provare ad influire nel sociale. Lo facevo già con il mio lavoro, che poi è anche la mia passione, il giornalismo, racconto storie. Però non mi bastava, sentivo il bisogno di un impegno spudorato, gratuito e ad oltranza. Mi sento felice di impegnare il mio tempo per progetti di questo tipo. A fare Sheep Italia sono sostanzialmente le storie con cui sono entrato in contatto. La cosa più grande che mi hanno insegnato è provare ad avere il coraggio di costruirne altre. Sheep Italia è nata dalla ricerca di un approccio rivoluzionario. È stata una mia idea quella di reinventare un mestiere, intrecciare la lana, e adattarlo praticamente ad ogni fascia d’età. Operiamo con persone che hanno vissuto alcuni inciampi. Il progetto è venuto alla luce solo quando ho capito che poteva diventare veramente reale. I primi piani economici sono di qualche anno fa, lavoro al progetto da almeno quattro anni.
Ci è piaciuta molto la metafora della lana che si può rammendare in caso di strappi proprio come si può fare con la vita, che possiamo in qualche modo ricucire quando a causa di determinate situazioni subentrano degli strappi. Tante storie legate da fili conduttori (in questo caso di lana). Ma quali sono le storie e il passato di chi entra a far parte del progetto? Sono per la maggior parte candidature spontanee?
Per adesso operiamo solo in zone nei dintorni di Firenze. Sheep cerca una situazione o un contesto in cui operare. Per scelta non impieghiamo tempo a formare nuovi gruppi. Andiamo dove per le persone è già un po’ casa. Lo scopo è creare dei percorsi alternativi, insieme a quelli esistenti. La cosa bella è che noi insegniamo ad insegnare. Molte persone non si sono mai trovate nella condizione di insegnare qualcosa a qualcun altro. E’ un lavoro di gruppo e di scambio continuo. Poi c’è anche il valore che si genera dal vedere realizzato un oggetto tuo, fatto con le proprie mani; ancora, potersi permettere di regalare qualcosa. Per chi vive una situazione difficile, anche un semplice cappellino per Natale è un segno molto forte. Noi mettiamo lana a disposizione in maniera gratuita. È un’ esplosione di gioia e di bellezza per chi regala un pensiero fatto con le proprie mani.
Le coperte si compongono di pezzi. Nel momento in cui vengono distribuite ai senzatetto, riuscirà – chi avrà la coperta – a conoscere la storia dei quadratini con cui è stata assemblata?
Sì certo, troveremo di sicuro il modo per raccontare le storie dietro ogni singolo quadratino. La coperta più grande comprende settantadue quadratini 15×15, quelle più piccole comprendono 32 quadratini. Ogni quadratino vale un pezzo di storia della coperta che avrà un valore enorme per le persone che ne avranno bisogno. Sarà il risultato di tante mani, storie e persone che hanno messo impegno in quell’oggetto.
Quanti pacchi avete ricevuto?
Più di mille, e li ho tutti in casa. È qui la sede di Sheep Italia.
Quali sono i prossimi progetti di Sheep?
Innanzitutto il lavoro di distribuzione, sarà impegnativo ed enorme. Oggi abbiamo aperto i pacchi per otto ore e diviso i quadratini per la realizzazione delle coperte di varie misure. Le volontarie, attualmente circa 60, si occuperanno di cucire insieme i quadratini. Poi ad ogni coperta andrà assegnata una storia, frutto di intrecci. Il nostro obiettivo principale è creare una comunità: non ci interessa essere veloci nei processi, nell’assemblaggio, quanto tessere legami e storie che rimangano.
Tra un ferro e una maglia, c’è anche il tuo lavoro di giornalista. Mi piace definirti un fact-checker sul campo, ricordi il tuo primo progetto video di denuncia in assoluto?
Prima di lavorare con Fanpage mi infiltrai in uno di quei corsi di guarigione per omosessuali, in un convento in provincia di Bergamo, gestito da tredici suore per 4 giorni e 3 notti con un prete esorcista che spiegava come “guarire – uso questo verbo perché è quello che usavano loro – dall’omosessualità, espellendo il demonio con le preghiere di guarigione”. Quello fu il primo servizio in assoluto in stile inchiesta/reportage. Avevo saputo che Luca Di Tolve aveva organizzato un corso in qualità di presunto guarito. Feci il video per conto mio. Avevo comprato una telecamera da duecentomila lire e mi sono avventurato.
Nei tuoi video tu riporti ciò che esattamente la gente dice, non c’è nessuna censura e nessuna finzione.
Assolutamente, l’unica operazione che compio è quella di estrapolare esattamente il pensiero di chi intervisto, nei casi più di clamore, voglio che si capisca veramente la gravità di ciò che l’intervistato sta affermando. Provo a scartare tutto ciò che sposta l’attenzione dal nocciolo su cui loro si fermano. Molte volte ci sono intervistati che si rendono anche conto della gravità di quello che stanno dicendo. A Predappio è chiaro che loro mi abbiano parlato della riapertura dei campi di concentramento e dei forni crematori, c’è il video. Erano loro che mi facevano la classifica con neri, gay, ebrei, io non ci ho messo nulla. Li guardo con fare di compatimento e non di presa in giro, il mio unico obiettivo è riportare cosa loro veramente stanno dicendo, l’assurdità del loro pensiero. Quando qualcuno mi dice “Mussolini ha fatto tante cose buone” allora io gli chiedo “Quali?” e lui mi dice che non se lo ricorda. Io non faccio nulla, l’intervistato fa tutto, lì non ci sono nemmeno tagli.
Spesso, quando interpellato, l’intervistato si rende conto di quello che sta dicendo e ha un momento di titubanza, è come messo a nudo e sembra che solo in quel momento dubiti delle sue credenze su cui è fisso, come riesci in questo?
Sì, questo mio modo di pormi mi viene naturale, a volte chiedo di ripetere due volte la stessa cosa e di scandire meglio. Spesso percepiscono questo velo d’ironia, ma il mio lavoro è quello di ‘ripulire dal grasso intorno’ per far emergere l’idea precisa.
Durante il tuo ultimo reportage al raduno dei negazionisti, ci sono state delle aggressioni sia verbali che fisiche. Che si fa in questi casi?
Durante quel raduno ho notato che è dagli interventi più estremi che sono partiti i maggiori applausi dal resto dei partecipanti, e questo rappresenta il senso della manifestazione: il sostegno di fronte a credenze aberranti. Le forze dell’ordine sono intervenute di loro volontà per allontanarci da quel gruppo che con maggior virulenza fisica stava venendoci sempre più vicino insieme ad una serie di parole pesantemente offensive.
In un’intervista, come ci si approccia a un pensiero totalmente diverso dal tuo?
Non ci sono particolari segreti, ci si deve semplicemente porre in maniera predisposta all’ascolto e curiosa, fare contro domande, lasciar parlare e lasciarsi incuriosire. Ma questo è trasversale, vale per tutte le storie che non si conoscono. Credo che le interviste con più potenziale siano proprio quelle in cui l’intervistatore pone domande semplici e basilari, perché non rischia di dare nulla per scontato. Io non mi occupo di video di approfondimento per esperti, anzi, di solito la prima domanda che faccio ai raduni vari è “Come va?” o “Perché è qui?”
Qual è la qualità dell’informazione che abbiamo in Italia oggi?
Sinceramente? Non è per nulla una buona informazione. Ovviamente si salva qualcosa, qualche programma televisivo e alcune testate di approfondimento fanno un buon lavoro, non è azzerata. Ma è una minoranza, se si parla mediamente, la maggior parte dell’informazione è un’informazione di intrattenimento che non informa. Quando la maggior parte delle narrazioni è filtrata da colossi, ne consegue un’uniformità del racconto.
È sempre stata così?
Non rimpiango nulla dei vecchi. In passato ci sono state figure che hanno provocato danni a grande impatto mediatico, quando ancora non c’era Internet o le fake news. La stampa è stata pesantemente deviata in diverse narrazioni, rese falsate e violente, ricordo il caso del G8 di Genova, ricordo le accuse che rivolgevano a chi come noi preparava la manifestazione. Insomma, non credo che quando si stava peggio si stava meglio. Non vedo una differenza sostanziale nella complessità rispetto al passato, la vedo in termini di rischi e di proprietà. Oggi, a parere mio, uno dei più grandi rischi è l’accorpamento dei canali in pochissime figure centrali, si parla forse di sette persone. Questo un po’ mi fa paura.
Cosa ti senti di dire ai giovani che si stanno approcciando al mondo del giornalismo?
Il giornalismo è un mestiere complicato, io terrei una seconda uscita. Questo non vuol dire immergersi in un lavoro completamente diverso, ma considerare una visione più ampia di questa professione, tenersi delle porte aperte che possono anche intersecarsi. Inventarsi di continuo in un mestiere che permette molte strade diverse, un po’ come ho fatto io.
Greta Contardi e Raffaele Buccolo
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