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L’esser diventati spettatori assidui del fenomeno migratorio rischia di far sbiadire il ricordo di un passato da protagonisti attivi. Ci pensa la storia a mostrarci chi siamo.
Negli ultimi decenni l’Italia si è trasformata da paese di emigrazione a paese di immigrazione, polarizzando l’attenzione sia della politica che dell’informazione nei riguardi di un fenomeno sempre più crescente, che per molti versi sembra ricalcare la storia dei nostri migranti. Mai come oggi l’attualità racconta di storie di vita umana che vedono nel nostro continente l’alba di un nuovo inizio, un luogo dove poter riscattare il diritto ad una vita dignitosa spesso negato in patria.
L’atto del migrare è uno dei fenomeni più ricorrenti nella vita dell’uomo, il quale nel viaggio ha sempre cercato una nuova speranza, lasciando dietro di sé fame, dolore e povertà. L’abbandono della propria terra in queste circostanze viene visto come un qualcosa di imprescindibile, un vero e proprio atto d’amore verso i propri cari, volto a stravolgere in positivo un triste epilogo già scritto.
Il caso italiano è unico nella storia delle emigrazioni poiché caratterizzato da diversi fattori: la lunga continuità temporale, la variegata componente territoriale e sociale, la diversificazione dei luoghi di destinazione e soprattutto la grande consistenza numerica senza precedenti. Nella fattispecie furono due le grandi ondate migratorie che interessarono l’Italia, con il primo ciclo che prende inizio nel 1876 fino ad arrivare alla prima metà degli anni ’20 del Novecento, ed il secondo che si sviluppa invece dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni ’70.
La nostra penisola, protagonista di entrambi i conflitti mondiali, conosce bene quindi i postumi di un’ondata così violenta di morte, fame e distruzione. Ed è per questo che le analogie con chi oggi scappa dagli stessi spaventosi fantasmi sono evidenti e legate da un filo invisibile che unisce indissolubilmente il nostro passato con un attuale presente doloroso.
Un passato innegabile
Quando eravamo noi coloro alla ricerca del sogno di una vita nuova, strappatoci via dagli anni più bui della nostra nazione, l’immagine che appariva al di fuori dei nostri confini era priva di quei connotati di bellezza, arte e cultura che da sempre ci contraddistinguevano agli occhi del mondo. Al contrario si veniva dipinti come povera gente, disposta a tutto pur di stravolgere la sorte, la cui vita valeva meno del nulla: l’addio alla propria famiglia, l’abbandono della terra natia, i viaggi in condizioni disumane ed il difficile adattamento in un territorio ostile nei confronti dello straniero erano il comun denominatore dell’esperienza che gran parte dei nostri avi ha provato sulla propria pelle e che mai come oggi risuona come ulteriore monito ad una maggior presa di coscienza, come essere umani in primis ma anche come comunità che porta nell’animo i segni indelebili di tale fenomeno
Dobbiamo molto a chi decise, senza non pochi timori, di partire. Il fenomeno delle rimesse economiche giocò un ruolo fondamentale nella storia economica italiana, considerando soprattutto le condizioni di evidente ritardo industriale rispetto ad altre nazioni. Una vera e propria manna dal cielo che giungeva in patria grazie a chi, tra lacrime e sudore, poneva le basi per la ripartenza di un popolo con tanta voglia di riscatto. Oggi se siamo quel che siamo, lo dobbiamo in gran parte alle nostre comunità di migranti che hanno indubbiamente contribuito al rinnovamento dell’immagine italiana, vivacizzando il paesaggio culturale degli stati dove si recavano, ottenendo come risultato finale la nascita di una “nuova cultura”, simbolo sia del contatto con il nuovo ma anche del legame con la propria terra d’origine.
La paura del diverso, i pregiudizi e l’ostilità nei suoi confronti appartengono ad un retaggio culturale universale difficile da correggere. Il muro di orgoglio ed indifferenza eretto da chi oggi non riesce ad intravedere in quegli occhi che chiedono aiuto, lo stesso sguardo di un nostro caro partito con la stessa richiesta di soccorso, è il simbolo di una lezione dalla storia non appresa a sufficienza, che cerca in ogni modo di voler occultare un passato innegabile ma soprattutto oggi sembra non appartenerci. Eppure, non sembrano esserci molte differenze tra chi decideva di attraversare l’oceano senza alcuna certezza di approdare vivo e chi oggi decide di affrontare deserti e mari in burrasca per sbarcare in quello che una volta per alcuni era il “sogno americano”.
I ricordi di Carla
Numerose sono le testimonianze dei nostri connazionali che abbiamo la fortuna di poter ancora oggi visionare, grazie ai tanti archivi, disponibili anche online, dove è possibile rivivere anche se solo idealmente, le sensazioni e le emozioni di storie di vita di tutti i giorni, messe nero su bianco per comunicare con chi era ormai irraggiungibile dell’altra parte dell’orizzonte, se non tramite queste parole.
Le parole di Carla, emigrante partita con la sua famiglia per New York, sono l’essenza di quanto quel viaggio tormentato racchiudesse in sé il contrasto tra sogni speranze e paure:
” Ricordo in modo imperfetto le ultime ore della traversata. Ricordo solo che, quando le formalità furono espletate, era troppo tardi per sbarcare e che trascorremmo la notte all’ancora in qualche punto della baia. Ricordo che dal ponte della Serpa Punto, guardavamo con bramosia la riva di fronte a noi e che non eravamo capaci di strapparci di lì per andare di sotto a letto. Non mi sembra di aver visto nessuno dei famosi punti di riferimento: non la statua della Libertà, non i grattacieli illuminati, non il profilo del centro della città contro il cielo. Solo la riva oscura e, lungo di essa, le luci in movimento di miriadi di automobili. Non potevo staccare i miei occhi da loro, affascinata e spaventata. Era possibile che anche a noi diventassero familiari quelle strade, che avessimo una casa, che vi ritornassimo in automobile alla fine della giornata? Tremando di freddo, io mi augurai in silenzio che la notte che ci attendeva potesse durare per sempre.”
Gianmarco Del Nero
C’era una sostanziale differenza tra gli italiani che andarono in America e gli immigrati che arrivano negli ultimi anni in Italia.
Gli italiani partivano da soli per cercare fortuna. La stragrande maggioranza degli immigrati arriva in Italia per foraggiare le onlus, ong, e chi arriva, se togliamo i pochissimi che trovano lavoro siccome in Italia non ce n’è, commette reati, bivacca tutto il giorno nei parchi cittadini, rendendo le città italiane come Parma sempre meno sicure.
Gli pseudo intellettuali di Parma ingolfati nelle inutili librerie cittadine con maglionci a collo lungo e giacchetta in flanella (ps: ma a Parma c’è un negozio di moda per i radical chic dove si riforniscono o tirano fuori dall’armadio i vestiti più brutti compiacendosi per emergere e distinguersi dalla massa?) se da una parte fanno la coda al Parco Nevicati di Collecchio per la festa multiculturale per prendere un piattino di riso somalo facendosi un selfie da mettere su facebook, durante l’anno si dimenticano degli immigrati e non vanno mai in via Venezia, via Trento, via S. Leonardo, viale dei Mille e non a caso questi benpensanti moralisti senza apparenti meriti non vengono mai immortalati nelle strade che ho citato prima prese in mano dalla microcriminalità (spaccio, furti) , ma vengono invece immortalati, svaccati e con un bel sorriso a fare la siesta nei caffè del salotto buono di Parma, come Strada Duomo.
Perchè diciamocelo, calato il sipario dell’apparenza e finita la festa multiculturale, il riso etiope è immangiabile molto meglio una mangiata di pesce tra ex colleghi, il parrucchiere nigeriano fa pettinature orribili ed è molto meglio quello italiano (meglio se non gay) di strada della Repubblica, e molto meglio una canzone dei beatles (non per me ) che By the river of babylon. E anzichè abitare in via Palermo è decisamente meglio abitare in centro, nei quartiere chic della città dove non ci sono i galoppini che spacciano ogni ora del giorno e pisciano in strada
Eppure proprio quelli che non vanno a fare la passerella alla festa multiculturali, quelli che non fanno inutili dibattiti in città sugli extracomunitari (salvo non integrarsi come dicevamo mai con loro), quelli che abitano nelle vie più pericolose delle città che i radical chic di Parma non conoscono e non le vivono, i piccoli imprenditori, o tanti ragazzi nelle scuole cittadine sono i primi a non avere paura del diverso, una paura che oggi è ingigantita per motivi lennonistici.
Anzi chi non fa le passerelle sono proprio i primi che in silenzio hanno amici neri (che il radical chic non ha), che vanno al bar in via Trento (e non stravaccati in Strada Duomo al bar per autocelebrare la propria parmigianità davanti al Battistero), sono quelli che hanno i colleghi di colore nelle fabbriche cittadine, che hanno un amico non caucasico che gioca con loro a calcetto senza tanta erudizione “Imagine there’s no country”
Parma, città accogliente e aperta, non ha paura del diverso, ma ha paura delle delinquenza e del degrado inesorante che vive Parma.
E’ curioso osservare anche come nessun lennonista cittadino, neppure il leader maximo, abbia avuto una parola di commento per quegli extracomunitari senzatetto fatti sgomberare dalla stazione dove in questi mesi di temperature rigide trovavano rifugio. Li c’era la paura del diverso? Ditemelo. E se erano li significa che non hanno lavoro e un posto e forse Parma non se li può permettere, a meno che chi con fierezza andava a prendere con orgoglio il piattino etiope di riso alla festa multiculturale non voglia ospitarne uno momentaneamente.