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Ha fatto molto discutere l’immagine della nuova copertina della rivista di moda Vogue con la foto della vice presidente degli Stati Uniti Kamala Harris. Perchè? È comparsa con il volto sbiancato. “Che vergogna”, “Kamala Harris ha la pelle del colore delle donne nere e Vogue ha comunque sbagliato le luci”, si legge tra i commenti dei vari utenti insoddisfatti della nuova copertina. La risposta della direttrice del giornale, Anna Wintour, non si è fatta attendere, intervenendo con una netta smentita. Nessuno schiarimento alla Harris dopo il set fotografico. Dichiarazione insufficiente però a fermare le critiche e l’insoddisfazione generale. Kamala Harris infatti, non è solo la prima donna a ricoprire le vesti di vicepresidente degli Stati Uniti ma è anche la prima donna di colore a farlo.
La mise della Harris, omaggio alle suffragette
Da sempre convinta femminista, la Harris ha pronunciato il suo primo discorso in qualità di vice presidente USA, indossando un tailleur bianco. Colore non casuale, perché onora la lunga battaglia delle suffragette. Un messaggio forte e chiaro arriva ancora prima del suo discorso quindi, dedicato proprio alle donne ed in particolare a quelle di colore. Le Suffragette sono le donne appartenenti al movimento di emancipazione femminile nato tra la fine dell’Ottocento ed inizio Novecento, per ottenere il diritto di voto, sfidando i sistemi patriarcali. Le donne sposate infatti, non avevano diritto a nessun tipo di proprietà, alla custodia dei figli o di dettare testamento. Rimanevano ai margini della società, venivano escluse dalle professioni mediche, legali e dagli incarichi amministrativi. Inchiodate a posizioni passive e stanche delle ingiustizie, le suffragette si ribellarono in modo costante e feroce ottenendo (chi prima e chi dopo) l’emancipazione femminile. È forte il senso di ammirazione verso queste eroine, la cui lotta rischia però di oscurare un’altra sfaccettatura della storia dei diritti femminili di quegli anni.
La doppia sfida delle suffragette afroamericane
In quello stesso periodo le afroamericane affrontavano due enormi ostacoli: le discriminazioni di genere ed il colore della pelle, che per evidenti ragioni non è mai stato un problema per le donne bianche. Le donne di colore allora, venivano spesso allontanate da convegni e manifestazioni, anticipando la lunga lotta per l’inclusione al voto. Si dovrà attendere figure come Martin Luther King ed emendamenti come il Voting Rights Act (legge sui diritti di voto) del 1965 con il quale verrà proibita la discriminazione razziale nel voto negli Stati Uniti d’America.
Se tra le suffragette bianche spiccano nomi come Emmeline Pankhurst, che guidò il movimento in Inghilterra o Victoria Woodhull, prima donna candidata alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America, tra quelle nere possiamo citare Mary C. Terrel, Ida Wells-Barnett e Anna J. Cooper. Nate schiave e vissute a cavallo dell’Ottocento e Novecento, condussero una battaglia anche molto aspra dietro un’ideale di uguaglianza ancora improprio per l’epoca. Presero parte non solo al suffragio universale ma anche a numerose campagne contro i linciaggi dei neri per condannarne la frequenza e la violenza inaudita.
Un “No” che rese liberi
Il famoso no di Rosa Parks di fronte ai continui soprusi di cui i neri erano vittima, fece sicuramente la storia. Rosa, una sarta della città di Montgomery (Alabama) di ritorno dal lavoro, si sedette nella fila centrale di un autobus. Gesto inaudito ai tempi, in cui tutto era diviso per bianchi e neri, compresi i posti a sedere sui pullman che erano riservati o ai primi o ai secondi. La donna, essendosi rifiutata più volte a cedere il posto venne incarcerata con l’accusa di “condotta impropria”.
Di lì in poi, fino a che qualcosa non fosse cambiato, fu chiesto ad ogni persona di colore di non usufruire dei mezzi pubblici, smuovendo qualcosa all’interno della società. Cambiamento che avvenne quando la Corte Suprema dichiarò incostituzionale la segregazione negli autobus, bandita definitivamente negli altri Stati negli anni successivi. “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”: sono queste le parole di Martin L. King che echeggiano attraverso le gesta di coraggio di queste donne (e non solo).
Oggi donne (ed uomini) afroamericane, hanno avuto la loro piccola rivincita. Tagliati fuori dalla società di quegli anni, tutto ciò di cui erano state private se lo stanno riprendendo poco a poco, attraverso il voto e le manifestazioni. Il movimento Black Lives Matter è la chiara dimostrazione della volontà di avere voce in capitolo e di denunciare le discriminazioni razziali, l’accesso al voto e la sovranità.
La diseguaglianza è ancora attuale
Se da un lato l’ex First Lady Michelle Obama dichiarò che ormai tutti i bambini davano per scontato che una donna poteva diventare Presidente degli Stati Uniti, dall’altro è sconcertante scoprire che vi siano bambini che non hanno mai visto le loro madri godere di alcun diritto. Donne che lottano per gli stessi diritti per cui lottarono le suffragette più di un secolo prima: parità a livello politico, in ambito lavorativo e libertà di poter decidere che cosa fare del proprio corpo, senza doversi sentire catalogate. Curioso scoprire che Paesi come l’Armenia, l’Azerbaigian, Kirghizistan, lo Zimbabwe o il Kenya approvarono il diritto di voto per le donne molto prima di Paesi che ora vengono considerati più “avanzati” come il Portogallo (1931) o Monaco (1962), la Grecia (1952) o addirittura la Svizzera (1971).
Dal diritto di voto ai diritti della persona
Il voto delle donne, che oggi sembra così ovvio, non lo era affatto fino a qualche anno fa in alcuni paesi. In Arabia Saudita infatti, tale diritto non venne garantito fino al 2011 e si dovette attendere il 2015 per poter far votare le donne per la prima volta. In molti paesi avere il diritto di voto non è sinonimo di avere diritti per la propria persona. Ne è un esempio l’India, paese originario di Kamala Harris, dove si registra un elevato numero di bambine scomparse al momento del parto ed altrettanto impressionante è il numero di stupri dichiarati. Nel Corno d’Africa è ancora diffusissima la pratica della mutilazione genitale femminile subito dal 98% delle donne e ragazze. In Somalia, dove non esistono leggi per proteggere le donne dalla violenza dei loro mariti, il primo ministro ha deciso di riservare un terzo dei seggi parlamentari alle donne. Un piccolo passo avanti nel lungo cammino verso la normalità.
Nella Repubblica Democratica del Congo, dove per “democratica” si intende un “ossimoro”, o quasi un insulto, le donne non possono nemmeno firmare un documento legale senza il permesso del marito. Queste ed ancora tante altre donne dell’Afghanistan, Iraq, Ciad, Nepal, Yemen, Mali, Guatemale e Pakistan lottano ogni giorno per sopravvivere. Basti pensare che proprio quest’ultimo Paese estese il suffragio alle donne nel 1947 (poco dopo dell’Italia) e tuttora è la nazione dove si registra la maggior disparità tra uomo e donna riguardo la partecipazione alle elezioni. Si attesta che l’affluenza delle donne pakistane alle urne sia in media del 10%. Eppure, Benazir Bhutto, essendo stata eletta come Primo Ministro in un Paese islamico, ce l’aveva fatta a sfatare il cliché del sinonimo di donna e nullità, tipico di alcuni paesi.
Buone speranze
Se alcuni Paesi sembrano rimasti nel “Medioevo”, altri sono esempi di speranza. A Mali per esempio, per la prima volta nella storia della piccola Repubblica, alle elezioni del 9 maggio 2020, l’Assemblea nazionale ha visto l’aumento del numero delle donne elette. Da 14 a 42 su 147 deputati.
In Afghanistan le donne potranno avere il loro nome registrato sulla carta d’identità dei figli. Come racconta la BBC, si tratta di una svolta dopo tre anni di campagna sui social da parte di un gruppo di attiviste afgane. L’hashtag era #whereismyname (dov’è il mio nome). Finora infatti, nella burocrazia, negli atti o nella documentazione medica, il nome delle donne non veniva registrato. Sheikh Hasina Wazed, Primo Ministro del Bangladesh, è considerata una delle donne più potenti del mondo, tanto da essere inclusa al ventiseiesimo posto nella classifica di Forbes. Lo stesso vale per Bidhya Devi Bhandari, Presidente del Nepal, conosciuta per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne, e per Sahle- Work Zewde, Presidente dell’Etiopia. Ancora, Halimah binti Yacob, Presidente di Singapore, è la prima donna mai eletta nella città-stato a sud della Malesia. Bisognerebbe quindi smettere di identificare la complessità del mondo femminile attraverso un punto di vista occidentale. Una conoscenza globale sulla questione del suffragio universale e sulla parità di genere, aiuterebbero nell’ottica di una maggiore equità tra sessi.
Il femminismo non può avere futuro se non vengono comprese le diversità. Troppo spesso, ancora oggi, viene dimenticato che l’uguaglianza tra uomo e donna non è mondiale. In molti Paesi le donne godono di importanti diritti, al pari degli uomini, perché diverse norme regolano le pari opportunità. Eppure, le disparità di genere sono ancora significative, in quanto la partecipazione economica, politica e sociale delle donne ancora oggi incontra non pochi ostacoli.
Sofia Ciriaci
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