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Travalicati gli affollati ed ormai omologati carnevali delle società dello spettacolo, sopravvivono -seppur respirando un’aria di morte- frammenti di carnevale che profumano di identità culturale perduta. Ci troviamo a Lajetto in Piemonte e ad Alessandria Del Carretto in Calabria, nord e sud non sono mai stati così vicini.
Le origini del Carnevale
Il carnevale è una festività antica, rappresenta l’apice del godimento terreno, che precede il periodo quaresimale fatto di digiuni dell’anima e del corpo. In esso sopravvivono i residui pagani delle feste dionisiache greche, dei saturnali romani e dei riti arborei. L’ordine del cosmo in quei giorni era totalmente mandato “al diavolo”!
Mascherata dunque la routine abitudinaria, il carnevale si trasformava in un cerimoniale dalla forza rigeneratrice capace di “ammansire” il divenire del tempo. Il calendario festivo tradizionale, poneva infatti le sue radici in un “tempo contadino”, ovvero quel tempo devoto ai ritmi biologici e stagionali, naturali, ciclici, quantitativi, sacri e dunque oppositivi al tempo complesso del presente.
Il carnevale rappresenta -nella sua ultima grande abbuffata del martedì grasso, in cui Carnevale crepa- il giorno del calendario che pone la fine all’inverno e al buio per lasciarsi andare alla luce e al fiorire della primavera.
Il Carnevale dei paesi Abbandonati
Cultori del “tempo contadino” – i paesi dell’entroterra d’Italia- ormai abbandonati o in via di abbandono. Luoghi saturi di ricchezza culturale, di paesaggi mozzafiato, di riti ancestrali, di folklore e religiosità popolare. Ma allo stesso tempo spietatamente aridi.
Quel che ne resta oggi, sono cumuli di civiltà. Costretti da calamità naturali e dall’estrema meccanicizzazione della vita, molti sono gli uomini che hanno abbandonato i luoghi della loro infanzia. Ma contro ogni apparenza i luoghi abbandonati non muoiono mai. Ardono nella memoria di chi li abitava e di chi ancora oggi riesce a riappropriarsene attraverso le feste.
Il Carnevale del Lajetto
Nell’estremo nord, -patria della chimera industriale- in Val Di Susa (Piemonte) si erge Lajetto, una vecchia frazione del comune di Londove. Un paese inabitato, abbandonato negli anni ’50, che risorge ogni anno grazie alle celebrazioni solenni del Carnevale.
Ad animare il paese Esseri misteriosi. Non ci si aspetti di trovare maschere “idiote”, ognuna di essa possiede un valore simbolico e mitico niente è lasciato al caso. L’universo delle “Barbuire”(maschere in francoprovenzale) rappresenta infatti un potente farmaco capace di far superare all’uomo le proprie crisi esistenziali.
Quel farmaco –tesoro del mondo greco- è da intendersi come rituale, infatti, abbandonandosi all’esaltazione mistica le maschere interpretano -alla maniera mitica- le forze oppositrici e generatrici del mondo. Da una parte il mondo sacro-apollineo incarnato dai Belli e dall’altra parte quello profano-dionisiaco incarnato dai Brutti.
Le maschere del carnevale
Il carnevale ha luogo alla domenica grassa, quella precedente le Ceneri. Fra i Belli:
- Il Dottore e Il Soldato che cammino e agiscono spesso insieme. Molti sono infatti gli ammalati sulle vie del paese che il medico -nella sua serietà e impostazione morale- cura volgarmente con il vino e la grappa.
- Gli Arlecchini, dalla candida bellezza, portano sulla testa un lungo cappello, definito anche “cappello delle fate”. Il bianco del copricapo è inghirlandato da fiori e nastri colorati, quasi a rappresentare la rigogliosità della giovinezza.
- Il Monsù e la Tòta, sono un uomo ed una donna eleganti, simbolo della borghesia. Sono spesso presi di mira dalle altre maschere, perché parodicamente visti come quei turisti imbellettati che vanno a scoprire l’esotica montagna per poi subito fuggire –una volta sazi- nel caos delle proprie metropoli.
Fra i brutti
Le vecchie ed i vecchi rappresentano il furore dionisiaco nel loro mimare “atti sessuali”. Sono i reietti della società, gli invasati, le baccanti della cultura greca. Protagonisti di quelli che erano i riti orgiastici, i quali possedevano una funzione propiziatoria degli dei in occasione della semina e della raccolta delle messi.
- Per ultimo la maschera del Pajasso, un essere antropomorfo vestito da pelli di capra imbottite con della paglia a mimare l’aspetto di un orso (animale-simbolo delle montagne). Appeso al suo corpo un rumoroso campanaccio che ha l’arduo compito di risvegliare la natura addormentata dal gelido inverno.
Ma soprattutto il Pajasso tiene fra le mani un gallo, il farmaco ultimo. Questo è il momento del sacrificio del capro espiatorio. Appeso ad un ramo infatti il gallo verrà ucciso. L’uccisione è il taglio con il passato, con il freddo che tutto ha gelato. E con la speranza di un nuovo inizio il gallo si farà “corpo divino” capace di nutrire un’intera comunità e di far sorgere la calda primavera portatrice di frutti.
Il Carnevale di Alessandria Del Carretto
E se fino a poco fa si parlava di estremo nord, siamo ora magicamente catapultati nel carnevale surreale di Alessandria Del Carretto.
Estremo Sud – patria dell’incompiuto e dell’abbandonato- siamo fra le ossa della Calabria. Alessandria si erge sulle montagne del Pollino dove si contano oggi 380 persone, le restanti sono andate via nei paesi limitrofi o fuggiti lungo le coste.
Troppo scomodo vivere in un paese sulle montagne, è come essere isolati dal mondo. Ed ecco qui il motivo dell’abbandono: vuoi le catastrofi naturali, vuoi le incuranze politiche è più facile abbandonarlo un paese che cercare di ricostruirlo. Vuoi poi le pressioni che spingono alla creazione di agglomerati lungo le coste grazie al boom della cementificazione. Vuoi la promessa di una vita più agevole. Ed eccovi servita con facilità la ricetta di come una comunità muore per sempre. Il Carnevale di Alessandria del Caretto presenta varie analogie con il carnevale di Lajetto, ma ad essere ancora più simile è la loro storia di paesi abbandonati.
Le maschere del carnevale di Alessandria
Le maschere prendono il nome di “Połëcënellë”e sono divise in belle e brutte in tutto simili a quelle del carnevale delle montagne piemontesi.
- Fra le maschere più bizzarre dei “brutti” quella di “Coremmë”. È una signora in lutto, per la morte di suo fratello o suo marito (non ci è dato saperlo) Carnevale. Dopo le abbuffate trimalchioniche e le dissolute feste dionisiache, Carnevale crepa, abbandonando nella povertà Coremmë. La Maschera simboleggia l’arrivo del periodo quaresimale segnato da una rigorosissima dieta del corpo e dell’anima.
- L’Ursë è l’uomo non civilizzato, il vecchio orso simile al “Pajasso”. A differenza di quest’ultimo, occupa un ruolo minore. A prevalere nel carnevale calabrese sono infatti il bene e l’allegria raffigurati dai belli, che occupano gran parte dello spettacolo carnevalesco.
- La maschera protagonista è infatti quella del “Pulcinella Bello”, analoga a quella degli arlecchini piemontesi. L’originalità della maschera calabrese è da ricercare nell’estrema accuratezza dedicatagli sin da tempo della vestizione, lenta, quasi come fosse un invito alla riflessione, ad indicare la necessità di un procedere “a piccoli passi” che va a scontrarsi con una società iper-velocizzata divorata dal caos.
Sul capo porta un “Cappelletto” abbellito da nastri colorati, fiori, piume. Sul viso indossa una maschera lignea dipinta di bianco con delle gote rosse. Le maschere servono a non far trasparire alcun sentimento. Il tutto avvolto nel sacro silenzio, interrotto soltanto dalla musica e dalla funzione apotropaica del campanaccio. Questo silenzio dei pulcinella durerà sino al calare del sole.
- I pulcinella sono accompagnati dalla figura della donna. Fino a dieci anni fa, era un uomo che si travestiva da donna. Non era facile vedere il sesso femminile in manifestazioni del genere, ma da qualche anno sono le giovani ragazze del posto che accompagnano i pulcinella. Indossano il costume tipico alessandrino: gonna e corpetto di pura seta rosea, camicia bianca, calze bianche ricamate a mano, scarpe nere basse e capelli intrecciati.
Accompagnando i pulcinella in questa danza al suono della classica surdulina (zampogna tipica calabrese), i giovani si abbandonano in passi e movimenti ripetuti, quasi fosse una danza rituale capace di far ricongiungere al divino.
Che sia quello del magico Carnevale popolare, l’invito ad una riflessione sul tempo autentico e sulla necessità dei riti, capaci di scacciare la negatività delle apocalissi culturali incombenti ma soprattutto, che sia il rifiorire -come primavera- dei paesi abbandonati, custodi di un patrimonio culturale immateriale unico.
Maria Cristina Mazzei
*foto copertina di Pierluigi Ciambra
*foto carnevale Lajetto pagina fb”Le Barburie del Carnevale del Lajetto”
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