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Lo streetwear si basa su abiti casual come jeans, magliette e sneaker, è esploso nell’America anni ’90 e oggi è diventato una specie di culto; molti marchi – come Vetements o Balenciaga – ne hanno fatto uno stile di lusso per cui certi seguaci più sfegatati – come gli hypebeast – sono disposti a spendere centinaia e centinaia di euro. Gli hypebeast – anche se il termine è dispregiativo – sono persone che sfoggiano abiti costosi solo per impressionare gli altri, che comprano pezzi rari solo perché sono rari e che cercano l’esclusività anche quando questa esula dalle loro possibilità economiche.
Questioni di marketing
Non importa se il vestito in questione sia bello o brutto – conta solo possederlo –, perché i pezzi in edizione limitata che vengono pubblicizzati come imperdibili attireranno sicuramente la loro attenzione – anche a costo di ricomprarli su Internet a prezzi folli. Tutta la cultura hypebeast si basa su due concetti fondamentali: l’effetto carrozzone e il principio di scarsità. In economia, l’effetto carrozzone nasce quando l’interesse delle persone per un prodotto aumenta all’aumentare delle persone che desiderano il suddetto; il principio di scarsità, invece, dice che un oggetto è più appetibile se esiste in pochi pezzi limitati. Nel 2016 per esempio, Vetements presentò una t-shirt gialla in edizione limitata con il logo della DHL a “soli” 245 euro: nel giro di poco tempo tutti i pezzi andarono esauriti.
Non è raro che le case di moda usino loghi di altre aziende sui loro capi – anche questo è streetwear –, perché i simboli del McDonalds, di FedEx o di Starbucks sono internazionali, tutti li conoscono e ormai fanno parte della vita quotidiana delle persone; vendere dei capi simili a prezzi così alti non solo attira l’attenzione degli hypebeast, ma fa anche girare la voce su Internet e pubblicizza la maglietta per pubblicizzare l’azienda.
Lo stesso sembra essere accaduto il 16 novembre scorso alla Lidl. Prima che qualche grande azienda prendesse il suo logo, infatti, l’hard discount tedesco ha deciso di creare la propria linea streetwear in edizione limitata col proprio simbolo sopra. L’unica differenza è che i prodotti streetwear Lidl sono della Lidl: le scarpe unisex costavano 12,99 euro, la maglietta 4,99 euro, i calzini di spugna 2,99 euro e le ciabatte 4,99 euro. In un certo senso, con edizioni limitate di prodotti che quasi tutti possono permettersi – la Lidl è famosa per avere dei prezzi stracciati su tutto –, il discount ha aggirato il concetto alla base di queste tendenze streetwear, raddoppiando l’interesse e incentivando a comprare. Se a tutto questo aggiungiamo anche una campagna pubblicitaria mirata e intelligente che ha viaggiato principalmente sui social e che ha coinvolto gli influencer – dopotutto, oggi si vende anche diventando virali –, è facile capire il grande successo di queste scarpe gialle, rosse e blu.
Ma allora siamo tutti caproni?
I motivi per cui la gente si è fiondata nei punti vendita Lidl – a prescindere dall’operazione di marketing – sono molteplici: chi colleziona sneaker e voleva anche quel pezzo; chi non può permettersi scarpe costose e quindi ripiega su quelle; chi l’ha fatto solo per rivenderle a dieci volte tanto cercando di accalappiare chi avrebbe sborsato quei soldi perché doveva avere quel pezzo a tutti i costi; chi doveva avere quel pezzo a tutti i costi perché sì… Insomma, Lidl sapeva che questo tipo di operazione avrebbe funzionato – l’hypebeast esiste da tanti anni –, ha reinventato un po’ la cosa sapendo che avrebbe fatto parlare di sé ed è stata ripagata con un sold-out.
Questa storia dice molto su come funziona la nostra società consumistica. Rivendere le scarpe a 100, 200 o 500 euro non sarà il massimo della moralità, forse, però non è neanche illegale – anzi, il capitalismo si basa anche su questo. Non sarà morale neanche vendere in pochi pezzi un prodotto così economico che magari avrebbe fatto comodo a tante persone – soprattutto in questo periodo –, però non è molto corretto neppure stampare il logo della DHL su una maglia costosa quando forse certi dipendenti dell’azienda non potrebbero nemmeno permettersela. Il dilemma di fondo probabilmente è il materialismo del mondo occidentale: gli oggetti che possediamo definiscono il nostro status sociale; la pubblicità ci seduce e ci fa credere di desiderare cose che non ci servono o che non vogliamo; né Lidl né Vetements – come aziende – possono essere biasimate per mettere davanti a tutto il proprio guadagno.
Domande aperte
Come uscirne, allora? Sperare che le grandi aziende smettano di lucrare sui loro prodotti? Impossibile – è il loro lavoro. Smettere di comprare ed essere meno materialisti? Si può sempre migliorare – certo –, ma come possiamo diventare meno spendaccioni quando basta trascinare un dito sullo schermo per comprare qualsiasi cosa su Amazon e riceverla il giorno dopo? Essere circondati da continue pubblicità sui social e in tv non rende le cose più comode, né è così facile se si è collezionisti sfegatati. Vivere oggi non è semplice – è faticoso e pieno di insidie –, e il retroscena di questa storia della Lidl è soltanto un altro esempio.
Alessandro Mambelli
[…] spontaneo chiedersi che senso ha tutto questo. Collezionare fumetti autografati, scarpe in edizione limitata o statue di Batman ha un suo significato – sono oggetti materiali che si possono toccare ed […]