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La storia e il caso giudiziario
Volevamo scrivere un articolo come quelli che leggete ogni giorno sul nostro sito. Subito ci siamo accorti che se incroci la storia di Taranto degli ultimi sessant’anni, un pezzo non basta. Forse neanche due o tre. E di articoli, sull’ex ILVA e i suoi fumi velenosi ce ne sono a centinaia: raccontano di quando permettevano di abbracciare la felicità e di quando invece hanno solo procurato morte.
Abbiamo scelto allora di selezionare quello che è importante secondo noi conoscere per capire perché quelle ciminiere non si sono più spente. Nella prima parte del nostro lavoro ci siamo concentrati sulla linea del tempo dell’acciaieria di Taranto dai suoi albori a oggi, dalla proprietà alla vicenda giudiziaria, passando per il ruolo superficiale e demagogico della politica di ogni Governo. Successivamente, analizzeremo le turbolenti questioni ambientali e soprattutto, di salute.
Il 14 aprile 2021 potrebbe essere una data storica per Taranto. Quel giorno infatti, la città potrebbe liberarsi del mostro che la attanaglia da quasi sessant’anni: l’acciaieria ex ILVA. A seguito della sentenza del Tar di Lecce del 13 febbraio in quel giorno di aprile potrebbero essere spenti per sempre gli altiforni dello stabilimento siderurgico. La prima sezione del Tar leccese, presieduto da Antonio Pasca, ha infatti respinto il ricorso di Arcelor Mittal contro l’ordinanza del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci del 27 febbraio scorso, che imponeva alla multinazionale indiana di individuare e rimuovere, entro 30 giorni, le criticità ambientali, per poi procedere, nei successivi 30 giorni, alla chiusura degli impianti inquinanti.
Secondo il tribunale amministrativo, «è provato che i fenomeni emissivi sono stati determinati da malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento, nonché criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di forniture e di negligente predisposizione di scorte di magazzino. Si evince altresì che tali criticità e anomalie possono ritenersi risolte solo in minima parte e che, viceversa, permangono le condizioni di rischio del ripetersi di siffatti gravi accadimenti emissivi, che, del resto, non possono certo dirsi episodici, casuali e isolati». Quella andata in scena il 13 febbraio, però, è solo l’ennesima battaglia di una guerra che da anni vede contrapposti la Politica e la Giustizia, il lavoro e la salute, le esigenze produttive e l’ambiente.
Cos’è Ilva? Cenni storici
La storia dell’Ilva di Taranto comincia nel Secondo dopoguerra, con la decisione del 1959 di aprire un polo siderurgico nell’area di Taranto. Solo pochi anni prima, Pier Paolo Pasolini aveva definito così la città: «Perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari».
La struttura allora denominata Italsider faceva capo alla Finsider, la holding del Gruppo IRI che operava nel settore siderurgico per conto dello Stato. La struttura viene inaugurata il 10 aprile 1965, alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Saragat.
Durante i primi anni la città sembrò beneficiare dell’apertura della fabbrica, soprattutto sotto un punto di vista occupazionale ma ben presto la crisi dell’acciaio degli anni ‘80 sfociò in una crisi del settore siderurgico nazionale. Così nel 1988 Finsider e Italsider furono messe in liquidazione e il grande polo di Taranto viene venduto al Gruppo Riva, che lo acquista per soli 2500 miliardi di lire. I Riva cambiano il nome alla fabbrica, denominandola Ilva, dall’antico nome dell’isola d’Elba da cui proveniva la maggior parte del ferro lavorato.
Sotto la gestione della famiglia Riva si inaugura una stagione che vede la fabbrica travolta da scandali che riguardano l’ambiente e le condizioni di sicurezza dei lavoratori, in un susseguirsi che terminerà solo nel 2012, quando il GIP di Taranto dispone il sequestro della fabbrica e lo Stato avvia la procedura di commissariamento dell’azienda. Nel 2016 viene avviata una gara internazionale per la sua riassegnazione, che nel giugno 2017 è vinta dalla AM InvestCo, formata da ArcelorMittal e Gruppo Marcegaglia.
Dopo l’approvazione antitrust da parte della Commissione Europea, nel novembre 2018 Arcelor Mittal prende il controllo delle operazioni sull’Ilva, assumendosi impegni importanti in tema di riqualificazione ambientale, proponendo un piano di migliorie rigettato dal MISE, ma ponendo come unica condizione l’apposizione di uno scudo penale per i danni ambientali passati. L’immunità era contenuta in un Dpcm del 2017 e sarebbe servita ad evitare che, attuando il piano ambientale, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico rimanessero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato, essendo l’inquinamento di Ilva un problema di lungo corso. L’allora ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, giudicando l’immunità come un favore ad Arcelor Mittal, chiede all’Autorità Nazionale Anti Corruzione di esaminare la gara d’appalto che ha portato alla vittoria della multinazionale franco-indiana.
Il 4 novembre 2019 Arcelor Mittal notifica ai commissari straordinari dell’azienda la volontà di rescindere, proprio per la mancanza di uno scudo penale, l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva. Il 4 marzo 2020 infine, viene firmato un accordo tra i Commissari Ilva e Arcelor Mittal che prevede una trattativa perché si arrivi a sottoscrivere un nuovo accordo, con l’ingresso dello Stato rappresentato da Invitalia, agenzia partecipata del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Perché l’Ilva è diventata un caso giudiziario?
Il caso Ilva sotto il profilo giudiziario inizia nel 2012 quando la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. Il 26 luglio 2012 il GIP di Taranto Patrizia Todisco firma il provvedimento di sequestro degli impianti Ilva e dispone le misure cautelari per alcuni indagati. Vengono così arrestati Emilio Riva, presidente dell’Ilva S.p.A. fino al 2010 e suo figlio Nicola, succedutogli nella carica, oltre all’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso e i due dirigenti Ivan Di Maggio e Angelo Cavallo.
Nel Decreto di Sequestro Preventivo del GIP, emergono i comportamenti imputati ai vertici aziendali dell’Ilva e che hanno portato al rinvio a giudizio dei quadri:
- Emissioni di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici), benzo(a)pirene, diossine, metalli e polveri nocive da parte delle cokerie, dell’area parchi, dell’area agglomerato e dell’area acciaieria,
- Produzione e scarico di rifiuti liquidi e solidi tossici e pericolosi senza autorizzazione,
- Produzione e recupero di fanghi tossici contaminati da microinquinanti nonché deposito incontrollato degli stessi senza autorizzazione
- Produzione e recupero non autorizzato di liquami,
- Contaminazione dei terreni agricoli circostanti,
- Omissione di adozione delle misure necessarie ad identificare e ridurre i rischi industriali connessi alle attività dello stabilimento quali richieste dalla normativa nazionale, europea nonché dai piani di emergenza interni.
Lo Stato cercò subito di correre ai ripari per scongiurare il fermo della produzione dell’acciaio, che da sola vale il 2,5% del PIL. Fu perciò varata una legge ad hoc, la 231/2012 che inaugurava la stagione dei cosiddetti «decreti salva-Ilva». Con la Legge 231, veniva infatti concessa nuovamente la facoltà d’uso degli impianti, nonostante rimanessero formalmente sotto sequestro. I magistrati di Taranto hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale che – sebbene respingesse le istanze di illegittimità costituzionale – vincolava la prosecuzione della produzione alla presenza dell’AIA, l’Autorizzazione Integrata Ambientale. Da questo momento si succederanno altre tredici leggi «salva-Ilva» che di volta in volta rimanderanno la scadenza dell’AIA e con essa la regolarizzazione dell’azienda sotto il profilo ambientale. Attualmente, il DPCM del 29 settembre 2017 ha fissato, come termine ultimo per l’Autorizzazione Integrata Ambientale, il 23 agosto 2023.
Dagli sviluppi dell’inchiesta che portò al sequestro dell’Ilva, nel luglio 2015 iniziò il processo penale presso il Tribunale di Taranto, relativo alla morte di un lavoratore a causa di un’esplosione in un altoforno. Il procedimento, che prenderà il nome di “Ambiente svenduto”, e che diventerà il più grande processo ambientale della storia del Paese, porta a carico degli imputati le seguenti accuse:
- Associazione a delinquere finalizzata a commettere delitti contro l’incolumità pubblica (a loro volta divisi in: disastro ambientale, omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione) e la pubblica amministrazione;
- Rivelazione segreti d’ufficio e favoreggiamento,
- Contravvenzioni ambientali,
- Responsabilità amministrativa per omicidio e lesioni colpose,
- Danneggiamenti.
Dal 2015 l’azienda viene commissariata dallo Stato e nel giugno 2017 il Governo avvia una gara pubblica per l’affidamento della gestione degli impianti dell’Ilva, vinta dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, cui di fatto veniva ceduto l’affitto degli stabilimenti finalizzato poi alla sua acquisizione. Arcelor si ritirerà nel 2020 quando l’agenzia nazionale Invitalia le subentrerà. Il 17 febbraio 2021, durante la requisitoria del processo “Ambiente Svenduto”, il PM Mariano Buccoliero ha richiesto le seguenti condanne:
- 28 anni per Fabio Riva e 25 per Nicola Riva
- 28 anni per l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso
- 28 anni per Girolamo Archinà e 20 anni per l’ing. Adolfo Buffo, ex responsabili delle relazioni istituzionali
- 7 anni per l’avvocato del gruppo Riva Franco Perli
- 5 anni per Nichi Vendola, per concussione ai danni dell’ex direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, per cui è stato richiesto 1 anno
- 4 anni per Gianni Florido, ex presidente della Provincia ed altrettanti per Michele Conserva, ex assessore all’ambiente per concussione relativa all’autorizzazione all’esercizio della discarica per rifiuti speciali “Mater Gratiæ”
Lo scenario attuale: Invitalia
L’accordo con cui Invitalia (formalmente Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, agenzia governativa italiana partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) subentra ad Arcelor Mittal nella proprietà degli stabilimenti siderurgici dell’Ilva, prevede l’acquisizione del 50% dello stabilimento, per poi prenderne la maggioranza (60%) entro il 2022. L’accordo segna di fatto la nazionalizzazione dell’acciaio tarantino, ed è legato ad un progetto di riconversione green: un terzo della produzione verrà da forno elettrico, con l’ambizione di far diventare l’Italia un paese leader nella produzione di acciaio «verde», con una sostanziale riduzione delle emissioni e l’obiettivo della piena occupazione.
Ma se Domenico Arcuri, amministratore delegato dell’Agenzia statale si dimostra ottimista, chi quotidianamente vive e lotta a Taranto ha una visione diversa. Massimo Ruggieri, presidente dell’associazione Giustizia per Taranto riguardo alla riconversione energetica ha spiegato: «Quando parlano di riconversione green della fabbrica, si riferiscono alla conversione parzialissima della produzione Ilva a gas.
Stiamo parlando di passare da un combustibile fossile a un altro: l’Unione Europea considera il gas un combustibile di transizione, così vengono agevolate le grosse aziende, che invece di andare sui combustibili green possono passare al gas, un altro fossile senza grossi aggravi economici. In Ilva, inoltre, ci sono 13 linee di produzione, tutte a carbone. La riconversione a gas riguarderebbe due, al massimo tre linee. Questa riconversione green sarebbe quindi un decimo di quello che andrebbe fatto. E poi non è neanche del tutto verde».
Ma anche gli scenari futuri non lasciano dormire sonni tranquilli agli attivisti. «Poi hanno cominciato a spararle ancora più grosse – continua Ruggieri – dicendoci che sarà una fabbrica che tenderà verso l’idrogeno e che sarà zero emissioni. Effettivamente, l’idrogeno se prodotto da combustibili verdi può arrivare a non inquinare. Ma, stando a quanto analizzato da massimi esperti nel settore, è emerso che una fabbrica così grande riconvertita ad idrogeno non esiste.
Se anche volessimo sperimentarla, sarebbe una fabbrichetta da 1500 posti di lavoro, Inoltre, se si potesse fare, sarebbe appunto sperimentale e non vedrebbe la luce prima di 25 anni. Non basta parlare di idrogeno, che tipo di fabbrica vogliono, in quanto tempo, che programma hanno e cosa fare degli occupati che avanzano?» C’è un altro aspetto su cui la politica sembra puntare, ovvero la previsione di un grosso abbattimento degli inquinanti, a favore di forni elettrici. «Questo è quello che dicono apertamente, in realtà sarebbe in aggiunta ai camini stessi. È un inquinamento parziale, ma aggiuntivo. Il piano non tiene neanche da questo punto di vista».
Forte come l’acciaio, debole come la politica
Se si spegne l’Ex Ilva, si spegne un pezzo di Italia e di mezzogiorno. Tradotto in numeri significa una perdita di 3,5 miliardi di euro di PIL, 960 milioni di investimenti fissi lordi in meno e 2,2 miliardi di export che non ci sarebbero più (elaborazione Svimez per il Sole 24 ore). E nonostante questo nel 2019 la politica italiana si stava quasi facendo sfuggire Arcelor Mittal. Quella poi, è una multinazionale e sa tutelare i propri interessi. Si veda alla voce scudo penale.
D’altro canto, neanche la Procura di Taranto ha brillato per coerenza negli anni: per esempio, quando ha scelto di sequestrare senza facoltà d’uso l’altoforno 2, a seguito del procedimento sulla morte dell’operaio Alessandro Morricella risalente al giugno 2015, per poi tornare a concedere la possibilità di utilizzo purché fosse garantita a stretto giro la sua messa a norma. Gestire la questione Ex Ilva è annoso. Lo è stato per tutti i governi che si sono succeduti e l’unico dato alla fin fine constatabile è che poco o nulla è cambiato. Tralasciando la chiave di lettura delle responsabilità, di sicuro, il subentro dell’ ennesimo Governo non aiuterà la tabella di marcia verso una soluzione, se non finale, almeno di svolta che ci si augura.
La posizione della politica è senza dubbio delicata: da un lato, deve assicurarsi la presenza sul mercato di un asset strategico come quello della produzione dell’acciaio e dall’altro, ottemperare alle urgenze di protezione dei diritti alla salute, al lavoro e ad un ambiente salubre. L’impressione che emerge dal comportamento generale dei governi che si sono succeduti è quella di una certa ignavia, che porta a continuare a prediligere la produzione ed il fattore economico rispetto alla salvaguardia e alla tutela dei cittadini.
Lasciare che l’ex-Ilva sia e rimanga un problema esclusivo di Taranto rappresenta una sconfitta per il sistema politico, così come la rappresenterebbe anche occuparsene a fondo: vorrebbe significare sconfessare decenni di attività e di impegno normativo “a senso unico”. Se fosse troppo tardi per tornare indietro, quantomeno si avrebbe il coraggio di confessarlo apertamente? Siamo in un un momento particolare, il processo Ambiente Svenduto è alle battute finali, sarà l’ennesimo giro di boa per poi ritornare in alto mare?
Raffaele Buccolo, Sofia D’Arrigo, Mario Mucedola
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