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Sono le 18, è un qualsiasi giorno tra marzo e settembre 2020. Al netto del fuso orario, mentre in Inghilterra è l’ora del tè, in Italia è l’ora della conferenza stampa della Protezione Civile che ci aggiorna sui dati del Coronavirus. La nostra scatola di biscotti al burro è Domenico Arcuri, voce roca, accento marcato, che più che simpatia genera distanza e malfidenza.
La parabola di Domenico Arcuri
È entrato nelle nostre case per più di sei mesi tutti i giorni, ininterrottamente. E senza chiedere neanche come stavamo, andava dritto al punto: quanti morti, quanti agonizzanti. Il Ninni Bruschetta di Reggio Calabria è stato una delle star della pandemia, secondo solo al Presidente del Consiglio Conte. Si è ritagliato il ruolo di commissario straordinario per la lotta al Covid-19 tra polemiche ed alterchi con i giornali, soprattutto nella fase finale della sua carriera: al centro dello scandalo delle partite di mascherine acquistate dalla Cina, in piena emergenza ormai un anno fa, che Report ha svelato essere state acquistate ad un prezzo molto più alto sia di quello di mercato sia di quello praticato ad altri paesi.
Ed è per questo o per una certa ripetuta titubanza da un punto di vista decisionale di fronte alle difficoltà di approvvigionamento dei vaccini che uno dei primi atti del Governo Draghi è stato far saltare la sua testa, rimuovendolo dalla carica di commissario. Al suo posto un “illuminato”: il generale Francesco Paolo Figliuolo, Comandante Logistico dell’Esercito. A lui il difficile compito di traghettare il paese dalla dittatura sanitaria alla dittatura militare-sanitaria, sperando nei vaccini in tempi brevi, distribuiti capillarmente per lo stivale a suon di unò-duè.
L’ascensione del «Santo»
Per Domenico Arcuri certamente è una brutta notizia ma di certo non avrà bisogno di ricorrere alla NASPI, data la mole di cariche che già gravano sul suo groppone e la qualità dei lavori svolti negli ultimi 35 anni. Quando ai giovani viene richiesto di fare gavetta, di essere umili e partire dal basso ecco, se posso permettermi, consiglierei di non leggere mai la biografia di Arcuri.
Laureato nel 1986 in Economia e Commercio alla LUISS di Roma, nello stesso anno viene assunto all’IRI, l’istituto che si occupava dell’intervento statale nell’economia del Mezzogiorno per volontà diretta – così narra la leggenda – di Romano Prodi, all’epoca presidente dell’Istituto. Lo scopo della sua chiamata era “aprire” l’IRI alle nuove tecnologie. Nel 1992 lascia l’IRI e fonda Pars, società di consulenza tecnologica per aziende, che nel 2003 viene acquistata da Deloitte, la prima azienda al mondo per ricavi e numero di professionisti nel ramo dei servizi di consulenza e revisione per le aziende. In Deloitte “esplode” il fenomeno-Arcuri e dopo un anno, il nostro diviene AD di Deloitte Consulting, il ramo italiano dell’azienda, avendo così modo di seguire da vicino i problemi di moltissime aziende del Paese.
Il nome di Arcuri comincia così ad entrare nel circolo virtuoso dei mega manager italiani. Massimo D’Alema rischia l’all-in su di lui per convincere, nel 2007, l’allora Ministro dell’Economia Pierluigi Bersani a mettere Arcuri a capo di Sviluppo Italia. Questa era la “madre” di Invitalia, la società partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia che si occupa di investimenti pubblici. Ma il 2007 è anche l’anno de «La Casta», il fortunato libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che ha dato la stura all’antipolitica in Italia, ma ha anche rivelato le storture della vite-Italia, come quella che riguardava l’agenzia Sviluppo Italia che, come scrive Stella in un celebre articolo sul Corriere della Sera, tanto varrebbe chiamare «Sviluppo Parenti».
In concomitanza con la sua nomina, il Governo decide anche di adottare l’attuale nome, Invitalia, ed inizia così l’opera di bonifica del manager calabrese, che tra mille difficoltà, libera la partecipata da un sacco di rami morti, consulenze strapagate, sproporzione tra manager e dipendenti e “strane” omonimie tra dirigenti e componenti dei vari consigli regionali. Si può dire senza timore di smentita che questo sia il suo capolavoro.
Sono il signor Arcuri, risolvo problemi. O no?
Questo grande successo, però, va ad inserirsi in un contesto industriale che esce falcidiato dalla crisi economica del 2008. Allora Arcuri è costretto ad occuparsi di grandi crisi industriali: dall’Alcoa di Portovesme (SU) all’ex-Fiat di Termini Imerese (PA), dalla Breda Menarini Bus di Bologna alla Irisbus di Valle Ufita (AV), dalla Bakaert di Figline Valdarno (FI) alla Embraco di Riva di Chieri (TO) alla bonifica dell’area industriale di Bagnoli (NA), ma ce ne sono ancora altre. I risultati raggiunti dall’Invitalia di Arcuri sono impressionanti, riesce infatti a non risolvere neanche una di queste questioni.
Visti i brillanti prodotti della sua gestione – direte voi – sarà stato ridimensionato il suo ruolo, giusto? No. Anzi, gli vengono affidate due questioni ancor più spinose: il risanamento di Alitalia e l’ingresso dello Stato nella siderurgia attraverso l’acquisizione dell’ex-Ilva di Taranto. Arcuri non si è tirato mai indietro e, pur sapendo di andare incontro a situazioni dal coefficiente di difficoltà siderale, continua ad assumere compiti sempre più onerosi e gravosi, da ultimo quello di Commissario Straordinario per l’emergenza da Covid-19, che gli porta finalmente la popolarità su scala nazionale ma con essa anche il riconoscimento di una certa incapacità fattuale di fondo per quello che, ad ogni modo, è diventato il secondo manager pubblico più longevo, dietro solo a Giuseppe Bono, a capo di Fincantieri dal 2002.
Dal 2007 infatti, Arcuri ha attraversato nove governi (Prodi, Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, Draghi) sulla poltrona di vertice di Invitalia, ma è stato subito disarcionato da quella di Commissario Straordinario non appena insediatosi il nuovo governo: Draghi non ha voluto saperne niente ed ha affidato la gestione della pandemia al generale alpino Figliuolo. Sarà bellissimo vederlo sconfiggere il Covid a suon di grappa.
Un irremovibile che viene rimosso, e sulle note malinconiche di un pianoforte Arcuri riordina le scatole nel suo ufficio e torna al suo lavoro di tutti i giorni: pontificare di salvataggi difficili e querelare i giornalisti che gli rivolgono domande, esattamente come faceva il suo equivalente di centrodestra, Guido Bertolaso. Entrambi ispirati dal Jovanotti di “Ragazzo fortunato”: di dieci cose fatte, me n’è riuscita mezza e dove c’è uno strappo non metti mai una pezza, però sulle spalle dei lavoratori e dei cittadini italiani.
Mario Mucedola
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