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Nel 1973, alla 45° edizione degli Academy Awards, Marlon Brando rifiutò l’Oscar come miglior attore protagonista per Il padrino. Al suo posto, Brando mandò Sacheen Littlefeather – attrice, giovane attivista per i diritti dei nativi americani e presidente della National Native American Affirmative Image Commitee –, che salì sul palco con un abito della tradizione Apache per leggere una lettera scritta dall’attore:
Per duecento anni abbiamo detto agli Indiani, che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi: “deponete le armi, amici, e vivremo insieme”; quando loro hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato “trattati”, e che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita […] Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare.
Se Sacheen venne accusata di non essere davvero una nativa e di aver recitato, Brando fu criticato per aver boicottato la cerimonia e per il pessimo gusto con cui l’aveva fatto – “poteva dire quelle cose lui stesso” era la frase più popolare. Mentre la carriera della prima finì quella sera, però – Hollywood le chiuse in faccia tutte le porte –, Brando fu candidato l’anno dopo per Ultimo tango a Parigi. Perché Brando agì in quel modo? Perché proprio Sacheen? La verità è che il boicottaggio di Brando fu soltanto il punto più clamoroso della storia, ma l’intreccio fra il cinema e i nativi americani era cominciato molto prima.
La Nuova Hollywood
Tradizionalmente, il 1969 è un anno spartiacque nella Storia del cinema, perché nel giro di pochi mesi uscirono tre film fondamentali: Easy Rider, Il laureato e Il mucchio selvaggio.
Se in Easy Rider ci sono le prime scene psichedeliche che mostrano l’uso di droga, Il laureato lancia la carriera di un attore bravissimo – Dustin Hoffmann – che però non assomigliava alle star cinematografiche classiche. Prima di allora, infatti, gli attori recitavano quasi sempre gli stessi personaggi, facendo coincidere il loro nome coi loro ruoli: John Wayne era il cowboy giustiziere, Rita Hayworth era la pin-up… e così via. Hoffmann e Brando, invece, furono i primi a praticare una recitazione basata sulla psicologia dei protagonisti e non sul personaggio che il pubblico si aspettava da loro. Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, infine, è un western, cioè – come scrisse Bazin – “il cinema americano per eccellenza”.
Il western classico
Nel 1903, Porter gira La grande rapina al treno, il primo film in cui il montaggio assume una funzione narrativa. Le pellicole precedenti, infatti, avevano un’inquadratura fissa in cui si svolgeva tutta la storia; Porter, invece, usa più scene per far capire allo spettatore come procede la storia. Fondamentalmente, questo “cinema narrativo” è quello che abbiamo ancora oggi.
La grande rapina al treno è un western, e da quel momento il genere diventa il preferito del pubblico. La frontiera, i territori sconosciuti, i banditi, gli indiani e la natura pericolosa sono archetipi che raccontano storie che il pubblico americano (bianco) vede come metafora del Paese: uomini coraggiosi (bianchi) che sfidano il lato selvaggio del continente per costruire una Nazione libera e giusta. Ombre rosse di John Ford è l’esempio perfetto. Questo film del ’39 racconta di una diligenza che viene attaccata dagli indiani cattivi mentre attraversa il deserto, ma può anche essere una metafora dell’americano onesto che si fa largo nella natura selvaggia per portare la civiltà. All’interno della diligenza, tra l’altro, ci sono tutti i personaggi classici dei western che diventeranno stereotipi: il bandito col senso dell’onore (ovviamente interpretato da John Wayne), la prostituta, il banchiere subdolo… eccetera.
Il western revisionista
Il terzo film spartiacque, come si diceva prima, è Il mucchio selvaggio. Già il ’68 aveva colpito al cuore i western accusandoli di essere la cosa più razzista e imperialista che ci fosse – e avere Nixon come presidente e il Vietnam dall’altra parte dell’Oceano non aiutava –, ma questo film ribalta completamente la concezione “classica”. Oltre ai movimenti del ’68, un altro punto di rottura è il successo degli spaghetti-western, cioè western senza West – perché girati in Spagna o in Italia – e con antieroi come protagonisti. Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, per esempio, sono tutto tranne che eroi duri e puri alla John Wayne: Clint Eastwood è “buono” ma vuole trovare il tesoro e tenerselo per sé; il “cattivo” Lee Van Cleef è un sicario che non si fa problemi a uccidere; il “brutto” Eli Wallach è un bandito ricercato.
Il film demistifica la mitologia del western classico e apre la strada anche al film di Peckinpah. Il mucchio selvaggio è nichilista, violentissimo e brutale, ma distrugge la concezione consolatoria dei cowboys tutti buoni con una bella metafora del Vietnam: gli americani che vanno in un luogo non loro per imporre il controllo con la violenza. Da questo film in poi – a volte esagerando dalla parte opposta, a volte creando veri capolavori con personaggi grigi e a tutto tondo –, il western revisionista prende piede.
Distruggere gli stereotipi
È nel contesto del ’68, del Vietnam e del western revisionista che Brando rifiutò l’Oscar come segno di protesta per il trattamento riservato ai nativi – nel XIX secolo prima e nel cinema poi. Il boicottaggio causò scoppi d’ira – si racconta che John Wayne, “l’uccisore di indiani” per eccellenza, volesse trascinare Sacheen giù dal palco a forza –, proprio come succede quando qualcuno ascolta l’amara verità su di lui ma non vuole accettarla.
Il punto è che i western classici non sono la Storia del West. Sicuramente c’erano uomini onesti e nativi crudeli, ma “l’epopea del West” non può ridursi a tanti John Wayne che sconfiggono le barbarie per portare libertà e giustizia – non quando genocidi e violenza gratuita erano la norma. Brando e Sacheen dissero la verità in faccia a Hollywood, e Hollywood si arrabbiò perché sapeva che avevano ragione. Il cinema americano, dal ’69 in poi, ha sempre cercato di sconfiggere l’ipocrisia di una Nazione che è grande perché così ha raccontato di essere (alcuni titoli più o meno recenti che danno un’idea di questo: The Post, The Report, Il processo ai Chicago 7, Tutti gli uomini del presidente, The Loudest Voice, Vice, Dallas Buyers Club, Panama Papers). Girare un film di denuncia o boicottare gli Oscar probabilmente non cambierà il mondo, ma di certo può migliorarlo.
Alessandro Mambelli
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