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Ci sono tre tappe fondamentali nella costruzione dell’Italia. E se – come abbiamo detto nello scorso articolo – la prima è stata rappresentata dai moti del 1820-21, la seconda puntata non può che essere incentrata sui moti del 1848. Quindici anni prima della stagione garibaldina, il momento in cui ci si è resi conto, per la prima volta in maniera compiuta, della necessità di uno Stato-Italia. Un paese indipendente che sapesse essere compatto nell’opposizione alle ingerenze esterne, venissero esse dall’Austria o dal papato.
I moti del 1820-21 erano stati tutti repressi nel sangue dall’esercito borbonico e austriaco ma questo insuccesso non aveva certo sopito il desidero dei patrioti di liberare i vari stati dalla schiavitù di monarchie stantie ed occupazioni straniere. Tanto più che a questo desidero si andavano a mischiare altre contingenze su cui non si riusciva più a soprassedere.
In Sicilia, ad esempio, gli abitanti non avevano mai sopportato l’accorpamento forzato del regno isolano con quello napoletano. Soprattutto perché il Regno delle Due Sicilie era a forte trazione partenopea. Si diffuse inoltre una grave epidemia di colera, che aveva provocato una grave insofferenza nei confronti della monarchia borbonica, accusata di aver diffuso volontariamente la malattia avvelenando l’acqua. Scoppiarono così rivolte a Siracusa e Catania, prontamente sedate da Ferdinando II tramite l’invio del marchese Francesco Saverio Del Carretto, che fu uno spietato repressore delle istanze liberali. Questo “trattamento” riservato ai siciliani non fece altro che esacerbare i rapporti tra monarchia e popolo, che il 12 gennaio del 1848 insorse a Palermo.
La data è importante per due motivi: innanzitutto perché la rivoluzione siciliana è, in ordine temporale, la prima in un anno che vide insurrezioni in tutta Europa. Inoltre la data non fu scelta a caso: coincideva col compleanno di Ferdinando II. I moti palermitani capitanati da Rosolino Pilo incontrarono una debole resistenza da parte dell’esercito borbonico, così il re fu costretto a concedere una costituzione e a vedersi detronizzato. Si costituì il Regno di Sicilia, la cui bandiera era il vessillo tricolore con la Trinacria al centro. Il neoparlamento offrì la corona al duca di Genova Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia, col governo affidato al liberale Ruggero Settimo.
La rivolta di Palermo ebbe delle conseguenze a cascata: Carlo Alberto, nel Regno di Sardegna, concesse la costituzione che portava il suo nome, lo Statuto Albertino; Leopoldo II e Pio IX, rispettivamente nel Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, si adeguarono imitando le decisioni torinesi. Il Regno Lombardo-Veneto, invece, seguitava nel suo stato di territorio occupato dall’Austria, che pure stava vivendo dei momenti di tensione, date le insurrezioni di Vienna e Budapest.
Si diffuse quindi la voce delle dimissioni di Metternich, cancelliere asburgico simbolo del reazionarismo. E a Milano si decise di organizzare una manifestazione pacifica per chiedere al governo alcune concessioni che andavano in senso liberale: libertà di stampa, abrogazioni di leggi repressive. La manifestazione ben presto assunse i contorni di un vero e proprio assalto e sorprese le truppe austriache guidate da Radetzky che, dopo cinque giorni, dovettero cedere il controllo della città agli insorti, oltre a promettere la costituzione. Dopo le Cinque giornate di Milano, gli insorti chiamarono a gran voce l’intervento sabaudo. Così le truppe di Carlo Alberto, lentamente, diedero inizio alla Prima Guerra d’Indipendenza ed iniziarono a varcare il Ticino. Questo rappresentava il confine tra il territorio piemontese e quello lombardo, realizzando il sogno manzoniano a scoppio ritardato.
Alla notizia delle dimissioni di Metternich, non esultò solo Milano. A Venezia, una gran folla si radunò in Piazza San Marco, per chiedere la liberazione dell’avvocato Daniele Manin, del linguista Nicolò Tommaseo e di altri patrioti arrestati poiché sospettati di eversione. Da Milano però arrivava anche la notizia dell’insurrezione popolare, della temporanea capitolazione austriaca e dell’intenzione delle truppe asburgiche di vendicarsi bombardando Venezia. Così le truppe popolari guidate dal neoliberato Manin, uccisero il comandante Marinovich, a capo dell’Arsenale di Venezia. Occuparono ques’ultimo e costrinsero così il governatore veneto Palffy a rimettere i suoi poteri alla municipalità. La sera stessa Daniele Manin proclamò la Repubblica di San Marco, inaugurando un governo provvisorio che lo vedeva Presidente.
Le Cinque Giornate di Milano e la proclamazione della Repubblica di San Marco rappresentarono un momento di svolta: per la prima volta l’impero asburgico sembrava in seria difficoltà. L’entusiasmo patriottico spinse sia Leopoldo II di Toscana che Papa Pio IX ad inviare dei contingenti militare a sostegno dei Savoia. Questo però metteva il Papa nell’imbarazzante posizione di lanciarsi all’attacco di uno Stato cattolico in una guerra che, come ammise nell’Allocuzione al Concistoro del 29 aprile 1848, avrebbe finito per avvantaggiare soltanto il Regno di Sardegna.
Questo discorso però, gli attirò le critiche dei patrioti e liberali dello Stato Pontificio. Aggiungendosi agli attacchi austriaci ai territori papali, furono la scaturigine di una crisi politica e carismatica del Papa e del suo potere temporale che, nel novembre, lo videro scappare di notte, vestito come un semplice prete, diretto alla volta di Gaeta. Qui si mise sotto la protezione del Regno delle Due Sicilie e chiese l’intervento delle potenze cattoliche per ristabilire l’ordine nel suo regno, in cui nel frattempo si indicevano elezioni per l’assemblea costituente della futura Repubblica Romana.
In pochi mesi era dunque “successo un Quarantotto”. Le spinte liberali sembravano aver avuto la meglio sull’ordine costituito dalla Restaurazione, la fiamma della liberazione dal giogo straniero si era riaccesa. Ma i governi provvisori non avevano fatto i conti con lo strapotere delle monarchie regnanti che, per quanto azzoppate, godevano di un sistema fedele e radicato. Nel 1849 l’Esercito delle Due Sicilie bombardò Messina (ciò valse a Ferdinando II il soprannome di Re Bomba), da cui partì la riconquista dell’isola, guidata da un contingente di 24000 uomini. Al nord invece, la lentezza dell’esercito sabaudo permise agli austriaci di ritirarsi senza subire grosse perdite e riorganizzarsi sotto il feldmaresciallo Josef Radetzky.
Le truppe austriache quindi ripresero Milano dopo aver sbaragliato i savoiardi e i volontari nella battaglia di Custoza (ricordiamoci dello sterminio di Radetzky quando a capodanno battiamo le mani in maniera entusiasta al ritmo della sua marcia). Da Treviso invece calavano le truppe del generale Nugent che, riunitesi con quelle di Radetzky di stanza a Verona, procedettero a mettere fine all’esperienza della Repubblica di San Marco, che costò l’esilio a Manin e agli altri patrioti protagonisti.
Terminato il lavoro nel Lombardo-Veneto, le truppe del feldmaresciallo austriaco iniziarono a calare nello Stato Pontificio, occupando Ferrara, Parma, Bologna, le Marche. Trovarono anche una sponda inaspettata nelle truppe francesi del generale Oudinot inviate da Luigi Napoleone che invece sbarcavano a Civitavecchia. Il loro obiettivo era quello di rioccupare il Lazio nella sorpresa generale: nessun ultimatum era stato infatti annunciato. Tra il giugno e il luglio 1849 la Repubblica Romana si trovava accerchiata e politicamente sola. Nessuna potenza europea l’aveva riconosciuta, e si vide quindi costretta alla resa. I francesi entrarono a Roma e l’anno dopo ritornò anche Pio IX. Come primo atto, abrogò la Costituzione della Repubblica, così avanzata e democratica da essere alla base di quella che è oggi la Costituzione della Repubblica Italiana.
Non è fraterna guerra
La guerra ch’io farò
Dall’italiana terra
L’estraneo caccerò.
Così recita “Addio mia bella addio”, brano di Carlo Alberto Bosi, composto quando il battaglione toscano di cui faceva parte, lasciò il Granducato per dare supporto alle truppe piemontesi contro gli austriaci. Sarà questo spirito a illuminare il 1848 e gli anni a venire. Solo che, almeno nel periodo di cui abbiamo parlato oggi, i tempi non erano ancora maturi.
Mario Mucedola
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