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Il 26 maggio è stato giorno di elezioni in Siria. Per la seconda volta dallo scoppio della guerra civile che dal 2011 dilania il Paese, il popolo è tornato alle urne per scegliere il proprio Presidente. Come ampiamente previsto, il voto ha confermato Bashar al-Assad alla guida del Paese, che grazie a uno schiacciante 95,1% potrà governare indisturbato almeno fino al 2028. Un esito scontato per delle elezioni definite «né libere né democratiche» dai Paesi occidentali e dagli oppositori del regime, che infatti non ne hanno riconosciuto i risultati.
Un voto non fa democrazia
Questo lo sappiamo bene, e le elezioni siriane di mercoledì sono lì a ribadirlo. La vittoria di Bashar al-Assad, saldamente al potere da quando nel 2000 subentrò al padre Hafez, a sua volta in carica nei trent’anni precedenti, era infatti l’unico esito realmente possibile. E questo non solo perché gli unici seggi aperti erano quelli dei territori controllati da Damasco (in rosso nella cartina), ma anche per le modalità con cui sono stati scelti i «rivali» di Assad.
Secondo la legge siriana per potersi candidare alle elezioni è necessario aver vissuto in modo continuativo nel Paese nei dieci anni precedenti e ottenere il sostegno di almeno 35 parlamentari (su un totale di 250). Il problema è che la condizione di esilio a cui da anni il regime costringe i suoi oppositori ha impedito a molti avversari di Assad di soddisfare il primo requisito; il fatto che poi il parlamento sia dominato – con 165 deputati – dal partito Baath dello stesso Assad, ha fatto il resto.
Il risultato è stato che dei 51 candidati che si sono proposti, solamente due hanno potuto effettivamente sfidare Assad: Abdullah Salloum Abdullah, ex ministro per gli Affari parlamentari, e Mahmoud Ahmad Marie, un avvocato alla guida del Fronte Oppositore Democratico, una coalizione di piccoli partiti che costituisce la cosiddetta «opposizione tollerata». Due avversari, dunque, poco conosciuti e senza un’oggettiva possibilità di vittoria, scelti solamente per dare una parvenza di democraticità e regolarità ad un’elezione puramente simbolica.
A questo aggiungiamo le intimidazioni a cui sono stati sottoposti gli elettori e l’esclusione dal voto di tutti quei cittadini all’estero privi di un valico di frontiera ufficiale – cioè praticamente quasi tutte le persone fuggite dal Paese a causa del conflitto. A completare il quadro è il monitoraggio delle votazioni affidato a 14 Paesi «amici» del regime. Insomma, parlare di elezioni farsa è fin troppo riduttivo. Con buona pace della democrazia e delle indicazioni dell’ONU.
Siria: a che punto siamo
Non si può comprendere l’importanza di queste elezioni se non si considera lo scenario in cui hanno avuto luogo e il modo in cui ci si è arrivati. In breve, potremmo dire che esiste una Siria prima e dopo il 2011. In quell’anno, infatti, il vento delle Primavere arabe sollevò una lunga serie di proteste contro il regime autoritario di Assad, degenerate poi in una logorante guerra civile di cui, ad oggi, nessuno sembra vedere la fine. Prima del conflitto la Siria era un paese unito, che non conosceva l’occupazione di soldati stranieri o di gruppi jihadisti e in cui, soprattutto, nessuno parlava di ISIS.
Già nel 2014, quando si tennero le ultime (sempre «democratiche») elezioni, la situazione era molto diversa. All’epoca, infatti, il regime di Assad controllava una porzione irrisoria del paese e poteva contare solamente sull’appoggio dell’Iran, mentre gli altri governi attendevano la sua caduta per spartirsi il territorio siriano. In quella circostanza, nonostante l’89% dei voti a suo favore, Assad aveva difronte a sé un futuro piuttosto incerto.
Oggi invece, il leader siriano non sembra avere rivali. Pur con qualche difficoltà, controlla ormai il 70% del Paese – il resto del territorio è invece diviso fra curdi e gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia o dall’Occidente – e può contare sull’appoggio della Russia e sul riavvicinamento dei Paesi della Lega Araba. Questo pone Assad in una posizione di forza che nessuno sembra poter intaccare, come dimostra, ancor prima dell’esito, lo svolgimento stesso delle elezioni di mercoledì.
Cosa significa la vittoria di Assad
Le presidenziali 2021 non servivano solo a ribadire – come se ce ne fosse bisogno – l’indiscusso potere di Assad. Lo scopo era mandare un messaggio forte e chiaro al resto del mondo: la guerra è finita ed è tempo di ricostruire la Siria. Ovviamente, secondo le rigide regole di Assad.
Giulia Battista
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