2 ' di lettura
Alberto Manotti ha 80 anni e vive a Boretto da che si ricorda, e per farsi ricordare invece si fa chiamare Re del Po. La devozione per il fiume la si percepisce dallo sguardo assorto verso l’altra sponda, quella lombarda, che ammira dalla sua cattedrale. Appena vede anima che si incuriosisce al passare nei pressi del territorio di golena che autogestisce, fa segno di avvicinarsi con la mano. Da lì in poi inizia un soliloquio che intrattiene chiunque sia disposto ad entrare nella sua dimensione. Infatti, Manotti sostiene di arrivare da un altro pianeta in antitesi con il fugace mondo contemporaneo e soprattutto con i borettesi, gli abitanti del paese in cui si recano macchinate di turisti per ammirare l’opera del re, i quali dovrebbero, a suo parere, ravvedersi della fortuna di abitarvi a pochi passi.
Dice di provenire da un altro pianeta nel senso che, sradicato da una terra madre e trovatosi in un ambiente malsano, se ne è creato uno parallelo, di pianeta. Si tratta di una manciata di metri quadri in cui sorgono due costruzioni: ‘la nave Jolanda‘ in onore della madre scomparsa pochi anni fa, che si presta anche da osservatorio astrale, lungi dall’inquinamento luminoso cittadino. Poi c’è il castello dei bambini a cui ha dato il nome di ‘Isola di Pan‘. Per realizzare le sue opere conta di aver usato più di 25 000 legni di fiume. Il numero di chiodi non se lo ricorda, ma non li ha quasi mai comprati; le persone che hanno a cuore il suo progetto gliene procurano qualche sacchetto, che accetta con gratitudine.
Entrambe si ergono su due piani: quello con sabbia come pavimento è adibito a bar in cui si trovano appesi utensili da cucina, insieme agli oggetti di recupero più bizzarri. Il piano superiore invece offre una panoramica del bosco circostante e del fiume che scorre placido a fianco. Alberto, da persona mansueta e accogliente, e convince a salire sulla costruzione accedendo da una scala a pioli. Con fragile agilità si arrampica anche lui, ma solo per rivendicare con orgoglio dettagli che ad occhi meno aguzzi risulterebbero insignificanti.
La costruzione appare abbastanza instabile, ma una volta giunti in cima, la costruzione la si percepisce tutt’altro che precaria, e si è dunque nel nucleo del suo pianeta. Se si procede lungo tutta la passerella, si raggiunge il trampolino, da cui Manotti si è tuffato per la prima volta quest’anno a inizio aprile. Probabilmente per lui l’immersione nelle acque fetide del Po equivale a una benedizione, fonte simbolicamente pura, ignara della malevolenza appena fuori da quella radura.
Il re del Po tiene un diario su cui annota data corrente e una nota da chi sia di passaggio. Le sue mani portano il segno di chi ha vissuto una vita tra terra e acqua, gli elementi di cui alla fine siam fatti.
“Io non me ne andrò mica”, racconta ancora. “Io ho il fiume, la natura, i bambini e il tempo. Questo mi basta, non posso andarmene”. Si mantiene fermo sulla convinzione che, finché saranno presenti questi elementi, la morte dell’anima non ha da esistere, destino che tocca invece chi da essi si tiene lontano.
Prima di salutare il re del Po e tornare verso casa, si percorre un vialetto selvatico che porta alla strada asfaltata, a lato del quale ha installato un rudimentale parco giochi, appendendo altalene a due pioppi gentili. Si offre di avviare il dondolio, invitando a lasciarsi cullare dall’ebrezza di tornare per qualche minuto tornati bambini. Chissà che, tra i numerosi richiami poetici del luogo, abbia ben focalizzato la storia del fanciullino di Pascoli: per restituire alla vita quell’irrazionalità che fugge da chi si arrende a un destino predefinito e con la poesia volere, ostinatamente, sottrarre alla morte quanto più è possibile.
Greta Contardi
Be First to Comment