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“Tunisina de Roma”, Takoua Ben Mohamed è uno degli astri nascenti del graphic journalism. Giovanissima, appena ventinove anni, è la madrina italiana del fumetto intercultura, strumento con cui si impegna a combattere le discriminazioni e i pregiudizi. Le sue storie riguardano spesso questi argomenti, tratti dall’esperienza personale: trasferitasi in Italia a 8 anni, è ancora vista come una “straniera” dagli occhi di molti. Con “Sotto il velo” (2016), ha raccontato alcuni dei grandi pregiudizi a danno delle donne musulmane, mentre ne “La Rivoluzione dei Gelsomini” (2018) ha raccontato le vicissitudini della sua famiglia in Tunisia sotto la dittatura di Ben Ali, di cui il padre era oppositore. Torna oggi con una graphic novel per ragazzi, “Il mio migliore amico è fascista”, edito da Rizzoli e ne abbiamo parlato con lei.
La storia avviene tra i banchi di scuola, questo “amico fascista” era il tuo compagno di banco. Ma non si diceva che i bambini o i ragazzi vogliono solo giocare e non si pongono problemi di razzismo?
I bambini, non gli adolescenti. Quando ero bambina, alle scuole elementari, non ho mai avuto problemi. Dopo gli attentati alle Torri Gemelle, alle medie, è cambiato tutto, c’è stata una maggiore esposizione. I ragazzi ripetono quello che sentono dalla tv o dagli adulti e lo ripetono con molta facilità. Non ne sapevo granché di fascismo, lo avevamo studiato ma poco, senza entrare nel dettaglio delle atrocità nazifasciste verso gli ebrei e le minoranze. Però l’adolescenza è l’età più complicata, e lo è stata anche per me che stavo costruendo la mia identità. Mi ponevo tante domande e volevo una risposta. Sentivo tante parole e andavo a conoscerne il significato. È un’ età molto sensibile e delicata.
A un certo punto, durante la storia, a Taku vengono rubate delle foto che la ritraggono senza il velo e vengono fatte circolare. È un lavoro di fantasia o esiste questo tipo di bullismo nei confronti delle donne musulmane?
Quella cosa è successa veramente. Tutto ciò che racconto nel libro è successo realmente, non mi sono inventata niente. Il bullismo e la discriminazione nei confronti delle donne musulmane è anche peggio. Qualche giorno fa una ragazza che conosco anche abbastanza bene mi ha raccontato che è andata a fare l’esame per ottenere la patente B in Motorizzazione, e gli esaminatori hanno chiamato la polizia, che l’ha perquisita praticamente dalla testa ai piedi senza neanche spiegarle il motivo. C’è molta discriminazione nei confronti delle donne musulmane.
La professoressa di matematica rappresenta il femminismo sessantottino e la deriva che ha preso, cioè quella di una “dottrina coi paraocchi”. In un mondo globale che deve includere per sopravvivere, questo modo intransigente di interpretare l’universo femminile, non rischia di creare più danni che benefici?
Sicuramente il tipo di femminismo con cui ho rappresentato questa professoressa è più “esclusivo”, diciamo, che andava bene forse fino agli anni ‘90 ma non oggi che l’Italia è un paese interculturale, dove ci sono altre minoranze, altre opinioni, altri modi di essere donna. Base del femminismo è la convinzione che la donna sia ciò che sceglie di essere. Però, c’è ancora il pensiero di una parte di femminismo appunto “esclusivo” per cui noi donne occidentali bianche abbiamo il dovere di salvare le altre donne dalla loro oppressione. Non chiedono tuttavia, alle donne che vogliono salvare se è stata una loro scelta portare il velo o è stato imposto loro. Qual è la tua opinione di donna? Qual è il tuo modo di essere donna? Perché alla fine non siamo tutte uguali. Quello che ci accomuna è avere la libera scelta verso quel che si vuole.
Ti è mai capitato di essere discriminata, faccio un esempio: andare ad un colloquio di lavoro ed essere scartata, solo perché porti il velo?
Assolutamente sì, soprattutto nel periodo in cui studiavo in Accademia e non potendomela permettere cercavo un lavoro per mantenermi. A volte me lo dicevano direttamente, altre volte invece usano un altro metodo. Se invii un curriculum dove c’è la foto, magari non ti chiamano proprio. Se non c’è la foto ti chiamano, fissi l’appuntamento ti presenti e usano la scusa “abbiamo già trovato qualcun altro”, oppure “non hai le esperienze e le capacità che noi cerchiamo”. E allora perché mi avete chiamato? Di cose del genere ne sono successe, poi ho avuto la fortuna di smettere di andare a cercare lavoro dagli altri, sono diventata libera professionista e ho fatto quello che volevo fare nella vita, ma è stato un caso, tante altre non hanno questa possibilità.
È davvero così difficile portare il velo in Italia?
Sì. Soprattutto nei periodi post-attentati, non si fa altro che parlare di questo come se le due cose fossero collegate tra di loro. In realtà, fa quasi paura uscire con il velo, tutti ti guardano in modo minaccioso, giudicante, come se tu fossi il colpevole di quello che è successo nel mondo. Magari non lo sai neanche, non hai letto il giornale, avverti la tensione sociale e dici “ok, forse è successo qualcosa che ancora non so”.
Quando Taku si sfoga con la professoressa le dice che ci si aspetta da lei che prima o poi si sposi con uno sconosciuto: un matrimonio combinato, insomma. E questo mentre si sta cercando Saman Abbas che potrebbe essere proprio vittima del suo rifiuto verso questa pratica. È ancora qualcosa di così diffuso? L’Islam è ancora una religione così tanto patriarcale?
Non è l’Islam a essere patriarcale, è la società che c’è nel mondo ad esserlo. Basta guardare anche il problema della condizione lavorativa delle donne in Occidente, in Italia. È un problema sociale e culturale, non è un problema religioso. L’Islam è tutto il contrario e vieta queste pratiche: se una ragazza dice di no, nessun genitore e nessun imam può obbligarla a contrarre il matrimonio, è nullo a livello religioso. Purtroppo però queste pratiche esistono ancora.
Tuo padre è un esule. Da quando sei in Italia avete mai ricevuto minacce per la sua opposizione a Ben Ali o qui avete trovato la pace?
La dittatura non finisce oltre il confine di un paese. Quando siamo arrivati in Italia mio padre aveva l’asilo politico ma io, mia madre e i miei fratelli non l’abbiamo mai richiesto, quindi dovevamo andare in ambasciata e fare tutta la trafila per rinnovare il passaporto e avere il permesso di soggiorno e tutti i documenti ed ogni volta minacciavano mia mamma, che è sempre stata il nostro tutore legale. Ogni volta che andava in ambasciata le dicevano “devi portare tuo marito” (perché sapevano che essendo rifugiato politico fisicamente non può mettere piede nel territorio dell’ambasciata, che è considerato territorio tunisino: una volta che mette piede lì, loro possono arrestarlo anche se siamo in Italia). Mia madre ogni volta rispondeva che nostro padre non c’entrava niente, non era il nostro tutore legale, è stato esiliato, così dovevamo aspettare giorni perché ci rinnovassero i passaporti. Ma perché non ci volevano dare i documenti? Perché una volta scaduti i nostri passaporti, diventiamo automaticamente clandestini in Italia: perdiamo il permesso di soggiorno, perdiamo la tessera sanitaria, tutti i documenti e diventiamo invisibili nel paese che sentiamo nostro. Quindi non potevamo andare a scuola, non potevamo frequentare l’università, non potevamo fare niente: questo era il loro modo di minacciarci.
Qualche domanda invece sul tuo lavoro: sei un po’ la capostipite del “fumetto intercultura”. Ci sono altri fumettisti che stanno seguendo il tuo percorso?
Si, forse più in Europa che in Italia, magari qui hanno poche pubblicazioni o pubblicazioni minori, però vedo che molti studenti dei licei artistici e delle accademie di fumetto e design hanno voglia di seguire un percorso più legato al graphic journalism.
A proposito di questo, il fumetto spesso non è riconosciuto né come letteratura né come giornalismo. Trovi che sia difficile emergere unendo queste due caratteristiche, cioè come graphic journalist?
Non è difficile, solo che si dà poco spazio nelle redazioni. Se vai da un giornale, un quotidiano, una rivista e dici loro “voglio fare la graphic journalist”, ti rispondono “no, grazie, ciao e arrivederci”. In quel caso è difficile ma devo ammettere che sono molto contenta perché il graphic journalism sta entrando nelle scuole e nelle università, cosa che prima avveniva raramente. Non so, quando si studia Giovanni Falcone o Peppino Impastato, o questioni legate al Kurdistan o all’Iraq ci sono dei fumetti su questi argomenti, così se ne può parlare in modo più facile e portarlo ai ragazzi con questo strumento. Sta prendendo spazio nella scuola che è il mondo più difficile in cui entrare.
Mario Mucedola, Maria Cristina Mazzei
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