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Prendete il vostro smartphone e guardatelo per un minuto elencando mentalmente tutte le cose che sapete di lui. Quanto lo conoscete? Sapete dire come funzionano davvero le App? Quante e quali cose sa il telefono su di noi? Le risposte vi sorprenderanno.
Cosa può e non può fare un iPhone
Il 27 maggio, sul “Washington Post”, è uscito un lungo articolo intitolato “Tutte le cose che Apple non vuole facciate coi vostri iPhone”. L’autore, Geoffrey Fowler, scrive di tecnologia da quasi vent’anni, e con questo pezzo sostiene una volta per tutte che Apple è un monopolio che impedisce la libera concorrenza. Parlando da utente che possiede un iPhone, si lamenta di come certe funzioni siano limitate o contorte.
Scrive: “È in parte una questione filosofica: l’iPhone è solo un telefono che fa più cose, o è diventato anche un computer a tutti gli effetti? Potreste immaginare di spendere 1000 dollari per un laptop e poi non essere in grado di usare i software, i giochi o i libri che volete?”. Poi elenca alcune difficoltà, come fare un backup su Google Foto o Google Drive – possibile, ma queste opzioni non sono a portata di mano –, oppure scaricare App esterne. Nel caso delle App esterne, in realtà, la cosa è diventata molto più complessa. Apple – ma non solo – impone agli sviluppatori una tassa del 30% che ovviamente ricade sui clienti. Qualche tempo fa, “Fortnite” ha aggirato questa imposizione scontando i prodotti all’interno del gioco esattamente del 30%, costringendo Apple a fare causa a Epic Games, la società del videogioco.
Il processo è tutt’ora in corso, ma entrambe le parti sostengono di avere ragione. Apple dice che decidere quali App possono o non possono stare sullo store garantisce sicurezza e protezione dei dati; Epic Games sostiene che la libera concorrenza permetterebbe a sviluppatori più piccoli di non pagare questa tassa che potrebbe aiutarli a guadagnare di più e far spendere meno ai clienti. Da un alto, Apple può rimuovere unilateralmente qualsiasi App non le vada a genio, ma d’altro canto la tassa del 30% esiste da anni e che tutti impongono – anche se Android permette di installare App esterne senza problemi.
Smartphone, privacy e “capitalismo della sorveglianza”
L’altro grande problema relativo agli smartphone è la privacy. Apple sostiene che decidere quali App possono o non possono stare sullo store protegge i dati – e nel caso di quelli raccolti da Apple è abbastanza vero –, ma sappiamo tutti che con il resto non funziona così. Shoshana Zuboff, ne “Il capitalismo della sorveglianza”, scrive che in realtà le persone non scelgono davvero di condividere i loro dati coi vari social e siti. Il fatto – dice – è che i contratti di licenza sono così lunghi che nessuno si sognerebbe mai di leggerli tutti, e che le aziende li scrivono apposta così prolissi proprio per evitare che qualcuno scopra come i dati verranno usati. In questo caso, dice, non è una scelta consapevole, ma condizionata.
In ogni modo, i nostri dati e le nostre attività sono ovunque, e Facebook, Apple, Google e soci possono gestirli come vogliono, perché abbiamo dato loro il permesso. Da un lato è un bene: capire come ci muoviamo e cosa ci piace può aiutare gli sviluppatori a rendere i loro prodotti sempre più personalizzati e focalizzati su come renderci la vita più semplice; d’altro canto, però, possono liberamente vendere questi dati ad aziende esterne per fare pubblicità mirata.
Usare Facebook è gratis solo apparentemente: paghiamo un prezzo in termini di informazioni rilasciate alla società. L’effettivo guadagno dell’azienda deriva dalla vendita di tali informazioni a terzi: le società esterne che postano inserzioni indirizzate specificatamente a un target atomizzato, già indirizzato all’acquisto. Tutto quello che facciamo sui social produce informazioni: mi piace, interazioni, pagine visitate, amici… Gli algoritmi sono efficienti al punto che potremmo pensare che i telefoni sentano le nostre conversazioni.
Il sondaggio
La cosa più interessante – anche se è importantissima – non è sapere come funzionano i Big Data, i nostri telefoni o il mondo in cui viviamo oggi. Ma ancora di più è capire quanto le persone siano consapevoli di tutto questo. Abbiamo sottoposto un sondaggio a un campione di 85 persone – perlopiù studenti e studentesse in possesso di iPhone –, chiedendo loro come usano i telefoni e quanto conoscano dei loro “segreti”.
Il 58% degli intervistati sceglie un iPhone per il sistema operativo, mentre il 18,8% perché: a), in casa ha solo prodotti Apple; b) pensa siano più facili da usare. Chi possiede un Android, però, lo fa esattamente per lo stesso motivo, e cioè il sistema operativo più “libero” (25%). Il 43,8%, invece, guarda al prezzo, anche se c’è chi afferma che gli iPhone “come qualità-prezzo sono meglio di altri telefoni, e per un oggetto che si usa tantissime ore si può spendere un po’ più del solito”. Molti di quelli che scelgono Apple sono concordi nell’affermare che come dispositivi per il lavoro sono ottimi – soprattutto per l’integrazione fra i devices e la facilità d’uso, tant’è che chi passa a Apple non vuole più tornare indietro. In pratica, è un computer da tasca, protetto da attacchi virus e soprattutto sicuro rispetto alla privacy. C’è chi esprime dubbi sull’affidare i propri dati a una società, ma “meglio con loro che con altri”. Di fatto, anche se il sistema è “chiuso”, sembrerebbe che i vantaggi siano più degli svantaggi. L’unico difetto è la memoria non espansibile gratuitamente.
Abbiamo chiesto a chi possiede un iPhone se ha mai provato a fare tutte quelle cose “limitanti” che Fowler cita nel suo articolo. La maggioranza (rispettivamente 89,9%, 60,9% e 47,8%) non hai provato a sostituire Siri con un altro assistente vocale, non ha mai comprato un libro dal Kindle Store e non ha mai fatto un backup su Google Drive. Probabilmente per un utilizzo lavorativo o “medio” non ne hanno mai avuto bisogno: Siri va più che bene, il backup su Drive non era necessario e così via. Si può supporre che alle persone non importi più di tanto cosa l’iPhone non vuole che facciamo. Basta che ci lasci fare ciò che ci serve, o che ci dia un’alternativa soddisfacente.
Sulla privacy
Per quanto riguarda la privacy, invece, circa il 70% sa cos’è il capitalismo della sorveglianza, e ovviamente è ben consapevole di ricevere pubblicità mirate. Circa un terzo degli intervistati riceve annunci atomizzati almeno una volta al giorno; poco meno della metà restante, invece, parla di “da 5 alle 20 volte al mese”. La cosa interessante è che il 32,9% è mediamente preoccupata del continuo tracciamento effettuato dagli smartphone, anche se nessuno cambierebbe abitudini nell’uso dei telefoni. Soltanto due persone su ottantacinque hanno espresso vera preoccupazione.
In generale, si può supporre ci sia consapevolezza più che buona di come funziona il mondo di oggi. Eppure – sarà per il modo “invisibile” con cui i dati vengono raccolti, sarà perché a parte qualche pubblicità che si può ignorare a livello pratico non cambia molto – nessuno sembra troppo preoccupato. Chi si preoccupa lo fa troppo, o chi non lo fa sta sbagliando?
Alessandro Mambelli
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