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L’insostenibilità della Fast Fashion

3 ' di lettura

Non è difficile notare come le “tendenze” cambino velocemente. Armadi pieni di vestiti ormai fuori moda che, probabilmente, torneranno fra qualche anno come quella giacca vintage recuperata dal baule della nonna. È la ciclicità della moda.

Nella definizione enciclopedica di Treccani, la “Fast Fashion” è definita come “la capacità di alcune aziende di immettere sul mercato un prodotto in tempi molto brevi; tradizionalmente dalla selezione delle tendenze e delle materie prime fino alla vendita dell’abito nel negozio passano circa due anni, eppure il ciclo di vita dei prodotti è di poche settimane”. Alcuni dei brand coinvolti sono Zara, H&M Pull&Bear, Bershka, Oysho. Eppure, tutti loro cercano da un po’ di tempo di riparare il danno d’immagine mostrando il sito più “verde” e usando spesso parole come ecology, sustainability and green.

La fast fashion: insostenibilità sociale ed ambientale

La produzione di queste grandi multinazionali coinvolge milioni di operai e operaie, soprattutto a sud del mondo. Questo perché i costi sono più bassi e le politiche sindacali meno insistenti, e tutto ciò rappresenta un vantaggio per i brand che puntano a un ritmo fast sempre al passo con il cambio delle tendenze.

Interessante il report “Come calcolare l’Europe floor wage, un salario dignitoso per l’Europa centrale, orientale e sudorientale“, svolto dalla Clean Clothes Campaign. La CCC è una rete internazionale che riunisce organizzazioni a difesa dei diritti umani, battendosi per il miglioramento delle condizioni di lavoro nell’industria della moda e dell’abbigliamento sportivo.

Il rapporto è firmato anche dall’’European Production Focus Group, un gruppo di ricerca formato da diverse sezioni nazionali della CCC e da altre organizzazioni attive in numerosi paesi d’Europa. Per citarne alcuni: Albania, Bulgaria, Bosnia Erzegovina, Croazia, Repubblica Ceca, Georgia, Ungheria, Macedonia del Nord, Moldavia, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Turchia e Ucraina.

L’obiettivo del gruppo di ricerca è quello di introdurre in Europa la nozione e il metodo di calcolo del salario dignitoso definito come Europe Floor Wage. Ed è proprio lo sfruttamento dei lavoratori uno dei dati di insostenibilità sociale: nel sito di Clean Clothes Campaign, attraverso il Fashion Checker, è facile capire se uno dei nostri brand preferiti rispetta i diritti dei lavoratori.

Proviamolo insieme.

Il Fact Checker di Abiti Puliti

Inserendo il famoso brand Pull&Bear del gruppo Inditex, oltre al super fatturato, scopriamo che ha un bassissimo punteggio a livello di trasparenza. Significa che l’azienda difficilmente informa su dove lavorano i suoi dipendenti, e in quali condizioni; ciò rende difficile comprendere se esista o meno un rispetto dei diritti umani. “La trasparenza deve essere la pietra angolare di ogni sforzo serio da parte dei marchi di costruzione di una catena di approvvigionamento libera da violazioni dei diritti umani” dice Aruna Kashyap, consulente per i diritti delle donne presso Human Rights Watch.

Il risultato del fashion checker, Pull&Bear


Nel 2021 il re della Fast fashion sembra essere Chris Xu, il fondatore di Shein – famosissimo e-commerce di abbigliamento dove comprare non costa quasi nulla. T-shirt a meno di cinque euro, vestiti a meno di dieci e costumi a meno di venti: gli adolescenti con poca paghetta settimanale impazziscono all’idea di essere fashion con pochi “spicci”, ma vale davvero la pena riempirsi l’armadio di abiti di pessima qualità che danneggiano l’ambiente e la società soltanto per il gusto di essere alla moda? Sicuramente l’era dell’estrosità di un selfie non aiuta, ma essere consapevoli è già un primo importante passo.

L’azienda cinese, come riporta Nss magazine, registra una media di 4.000 nuovi item al giorno, con un fatturato di 10 miliardi di dollari. Le armi vincenti sono i prezzi e la tentazione, navigando sul sito, di voler comprare, comprare e comprare. E questo è dovuto anche al loro sistema.

Shein regala per ogni acquisto dei punti che, nell’acquisto successivo, garantiscono uno sconto a un prezzo già nettamente basso. Il brand è sempre stato poco chiaro, tanto che il Regno Unito l’ha accusato di poca trasparenza, di false dichiarazioni sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche e sulla provenienza dei prodotti.

E l’ambiente?

Il settore della moda, insieme agli allevamenti intensivi, è uno dei principale produttori di gas serra. Annualmente – come riporta “Focus” sulla base di una ricerca pubblicata su “Nature Earth & Environment” -, vengono rilasciate 4.000-5.000 milioni di tonnellate di CO2. La moda, così, diventa responsabile di circa l’8-10% delle emissioni globali, non escludendo dall’inquinamento neppure le acque. Con le loro 190.000 tonnellate, infatti, sono responsabili dell’accumulo negli oceani di oltre un terzo delle microplastiche.

Non sarà facile combattere con le grandi multinazionali, e per due semplici motivi: i costi bassi e l’idea di essere sempre di tendenza. Nel XXI secolo quest’ultima è continuamente messa al centro dell’esistenza.

I social media, con i loro influencer, stimolano repentinamente l’acquisto di nuove scarpe, maglioni e costumi, e molti prodotti costosi e alla moda vengono imitati dalle grandi catene permettendo a chiunque di acquistarli. Anche se molti consumatori sono sensibili ai grandi temi ambientali e sociali, restano comunque sorpresi e abbindolati dai bassi costi; allontanati dal marchio che rispetta l’ambiente, ma – ahimè – a un prezzo troppo alto.

Questo è il grave problema della sostenibilità: essere green alle volte pesa gravemente, sia sulla moda che sul cibo. “Meglio comprare una cosa fatta bene che tante fatte male”, dice l’adagio, ma per molti non è possibile.

La soluzione potrebbe essere acquistare nei piccoli negozi dell’usato, fare la spesa dai contadini o capire realmente ciò di cui abbiamo bisogno.

Giorgia Persico

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