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Francesco Costa è un volto noto del giornalismo italiano. Vicedirettore de «Il Post» ed esperto di Stati Uniti, con il suo modo di raccontare ha costruito intorno a sé una vera e propria community interessata ai suoi lavori. Tra questi, spiccano il progetto «Da Costa a Costa» – newsletter e podcast dedicati alla società, la cultura e la politica USA – e i saggi «Questa è l’America» (2020) e «Una storia americana» (2021). Da qualche settimana è anche autore di «Morning», un nuovo podcast del Post in cui, dal lunedì al venerdì, realizza una rassegna stampa commentando il contenuto dei principali quotidiani italiani. Lo abbiamo incontrato per fare una lunga chiacchierata sul suo lavoro e, ovviamente, parlare di Stati Uniti.
«Il Post»
Raccontaci qualcosa del Post. Com’è nato questo progetto?
«Il Post nasce nel 2010 da un’idea di Luca Sofri. Sulla scorta anche di quanto stava accadendo negli Stati Uniti abbiamo provato a creare un giornale che fosse esclusivamente online, e non semplicemente la versione web di quelli cartacei. L’obiettivo era, ed è tuttora, avere uno spazio in cui diffondere le notizie, ma in cui si lavori in un modo un po’ diverso da come avviene nella gran parte dei giornali italiani.
Negli anni precedenti avevamo spesso denunciato una mancanza di autorevolezza, precisione e affidabilità da parte della stampa italiana; a un certo punto ci è sembrato che non potessimo più limitarci a quello, così abbiamo provato a fare un giornale diverso. Chiaramente anche noi commettiamo degli errori, ma cerchiamo di farne il meno possibile, puntando molto sulla chiarezza e sull’affidabilità. Non ci interessa essere i primi a dare una notizia; quello che vogliamo è dare le informazioni corrette, anche a costo di arrivare dopo altre testate».
La vostra è anche una redazione relativamente piccola. Come organizzate il vostro lavoro?
«Sì, la nostra è una redazione piccola, soprattutto se paragonata a quelle delle grandi testate. Quando abbiamo iniziato eravamo in cinque, mentre oggi siamo 35. Siamo anche una redazione giovane (abbiamo praticamente tutti tra i 20 e i 30 anni) e soprattutto duttile: ovviamente assecondiamo le inclinazioni e i talenti di ciascuno, ma la nostra idea è che tutti debbano fare ed essere in grado di fare tutto. Di solito nei giornali si lavora molto per settori di competenza (di politica scrive solo una persona, di cinema un’altra e così via); noi invece teniamo molto a non essere territoriali nel lavoro redazionale. Siamo una squadra e ci diamo una mano a vicenda».
È per questo motivo che gli articoli del Post non sono quasi mai firmati?
«È uno dei motivi. Fin da subito abbiamo puntato più sull’identità del giornale che su quella delle persone che lo fanno. Vogliamo che i nostri contenuti siano giudicati per quello che sono, e non sulla base della firma che portano. Tant’è che leggendo gli articoli del Post è praticamente impossibile capire chi li abbia scritti perché sono indistinguibili: lo stile è lo stesso perché li ha scritti «Il Post». È un lavoro di identità della testata su cui abbiamo investito molto. Non è nemmeno una cosa che ci siamo inventati noi: anche gli articoli dell’«Economist», una delle più autorevoli e prestigiose riviste al mondo, non sono firmati. Ci è sembrato un ottimo modello e così abbiamo deciso di adottarlo anche noi».
«Il Post» ha anche un modello di business piuttosto particolare: tutti gli articoli sono disponibili gratuitamente, ma chi lo desidera può abbonarsi al giornale e fruire di ulteriori contenuti a loro riservati. Come mai questa scelta?
«È sicuramente una scelta particolare, ma siamo contenti di averla presa e di come stanno andando le cose. Siamo convinti che il giornalismo abbia un forte impatto sulla società perché, in un certo senso, piega la realtà mentre la racconta. E questo avviene soprattutto sulla base di quante persone ne fruiscono. L’idea che l’informazione di scarsa qualità sia disponibile gratuitamente mentre quella che cerca di fare le cose un po’ meglio sia accessibile soltanto a pagamento la consideriamo problematica.
Poi però, per riuscire a fare il nostro lavoro, dobbiamo per forza di cose tenere in piedi un’azienda. All’inizio lo abbiamo fatto solo con la pubblicità; poi abbiamo cominciato a chiedere ai nostri lettori se volessero contribuire a sostenere il nostro lavoro spiegandogli che in questo modo avrebbero avuto accesso anche a tante altre cose (alcuni podcast, alcune newsletter, la possibilità di commentare gli articoli e vedere il sito senza pubblicità). L’idea è: se questo giornale ti piace, contribuisci a rendere possibile la sua esistenza. E ha funzionato. Si è creato anche un vero e proprio rapporto di complicità con le persone abbonate al Post, per cui sentiamo davvero di fare questa cosa tutti insieme, e non che loro sono i clienti e noi quelli che vendono loro qualcosa».
Passiamo invece a «Morning». I podcast sono uno strumento che voi al Post utilizzate da tempo. Da dove nasce l’idea di dedicarne uno a una rassegna stampa?
«In realtà «Morning» nasce da alcune cose che già facevamo col Post. Da alcuni anni io e Luca Sofri teniamo ogni mese una rassegna stampa al Circolo dei lettori di Torino. Al Post, poi, abbiamo sempre cercato di offrire anche un’osservazione critica, e autocritica, dell’informazione. Siamo convinti che per essere informati non basti leggere i giornali, ma si debba anche capire il perché delle scelte editoriali ed essere pronti a riconoscere eventuali errori, quando vengono commessi (anche da noi ovviamente). Si tratta di un esercizio di trasparenza nei confronti del pubblico che crediamo vada fatto, ed è quello che provo a fare in «Morning».
La scelta dello strumento podcast, invece, ci è sempre sembrata efficace: è un mezzo che non richiede di monopolizzare l’attenzione di chi ne fruisce perché puoi ascoltarlo mentre fai altre cose. «Morning», tra l’altro, dura una ventina di minuti, un tempo che permette di ascoltarlo anche mentre si fa colazione o ci si reca a lavoro o in università. Considerando anche il successo che stanno avendo i podcast, ci è sembrato il logico passo successivo realizzarne uno che fosse non solo una rassegna stampa, ma una rassegna stampa commentata. Sto ancora imparando a farlo, ma sta riscuotendo un certo successo e di questo siamo molto contenti».
«Morning» esce dal lunedì al venerdì, prima delle 8. Come organizzi le tue giornate?
«Da quando è iniziato «Morning» le mie giornate sono cambiate molto, e sicuramente devo ancora trovare un vero equilibrio sonno-veglia. Quel che faccio ora è svegliarmi alle 5 e leggere i giornali fino alle 6-6.10. Leggo sempre «Corriere», «Repubblica» e «Foglio», poi altri quotidiani in ordine sparso. Ovviamente faccio una lettura un po’ trasversale, ma cerco di individuare gli aspetti più importanti e quelli che mi sembrano più interessanti. A quel punto mi sono costruito una scaletta delle cose di cui voglio parlare e registro. Vado a braccio, ma ho chiaramente un’idea precisa di dove voglia andare a parare. Prima delle 7 finisco di registrare, monto la puntata per ripulire eventuali «sporcizie» e tra le 7.40 e le 8 la pubblico».
Insomma, quando noi ci alziamo Francesco Costa ha già fatto giornata.
«Questa è l’America» e «Una storia americana»: un diverso modo di fare saggistica
Come anticipato, Costa è un esperto di Stati Uniti. A questo tema ha dedicato, tra le altre cose, due saggi che hanno ottenuto un notevole successo. Il primo è «Questa è l’America», un saggio-reportage sugli Stati Uniti che offre un accurato ritratto del Paese mostrando come, spesso, l’immagine che noi italiani abbiamo degli USA sia superficiale e distorta. Il secondo, invece, è «Una storia americana» ed è incentrato sulle figure di Joe Biden e Kamala Harris. Non si tratta, però, di una biografia di questi politici. Al suo interno, infatti, Costa racconta effettivamente alcuni episodi significativi delle loro vite e carriere, ma prendendoli come spunti per descrivere molti passaggi e aspetti della storia e della società americana, come l’aumento della criminalità degli anni ’70, le conseguenze della crisi del 2008 e il sistema sanitario.
Uno degli aspetti più interessanti di questi libri è sicuramente lo stile con cui sono scritti. Il loro contenuto li rende chiaramente dei saggi, ma quello che Costa descrive è presentato attraverso il racconto della storia delle persone. Si tratta di un modo di narrare inusuale e che ha conquistato tantissimi lettori, inclusi coloro che non sono soliti leggere la saggistica. È lo stesso Costa a spiegarci il motivo di questa scelta:
«Credo che i libri di saggistica siano spesso visti come dei manuali universitari, come dei testi un po’ inaccessibili, soltanto per addetti ai lavori. Io, però, sono convinto che quello che accade attorno a noi possa essere anche più affascinante e appassionante delle vicende raccontate nei romanzi. Restituire il fascino delle tante sfaccettature di una storia e dei suoi personaggi è una cosa che la saggistica credo debba provare a fare. Anche qui non mi sono inventato nulla: ci sono eccellenti saggisti che lo fanno da decenni. Io mi sono ispirato a loro perché credo che unire i meccanismi della letteratura al racconto di fatti realmente accaduti sia un ottimo modo per informare un numero più ampio di persone».
Gli Stati Uniti: tra cultura, politica e futuro
Un elemento affascinante che emerge in molti tuoi lavori è il confronto tra la nostra cultura e quella americana, a livello anche proprio di mentalità. Questo lo vediamo, ad esempio, nel diverso modo in cui ci rapportiamo col Governo o con la tradizione. Da questo punto di vista, quali sono secondo te le principali differenze tra i nostri due Paesi?
«Fare confronti è una cosa che a noi italiani piace davvero molto. Quando si parla di Stati Uniti, però, dobbiamo tenere bene a mente che parliamo di un Paese diversissimo dal nostro. Pensiamo già solo al fatto che loro sono 320 milioni e noi 60. Il loro poi è un paese multietnico. Tutto questo fa sì che la cultura americana sia molto più eterogenea della nostra e rende anche difficile identificare dei tratti che siano davvero comuni a tutti gli americani. Credo che questo dipenda molto anche dall’età anagrafica della nazione: gli USA sono un paese molto giovane, con solo pochi secoli di storia alle spalle; la nostra, invece, è una storia millenaria. Ovviamente anche in America millenni fa c’erano delle persone, ma quella società è stata poi completamente annichilita dai colonialisti europei, cancellata e rimpiazzata con una totalmente diversa.
Alcune differenze, però, possiamo individuarle. Lo vediamo ad esempio nel diverso rapporto con la politica, che negli USA è molto più attivo e partecipato: si donano soldi ai candidati e ai partiti, si parla di politica in continuazione e ci si mobilità molto più facilmente, come hanno mostrato i due mesi di manifestazioni quotidiane seguite all’omicidio di George Floyd. Da noi invece regna un rapporto di profonda disillusione nei confronti della politica.
La loro, poi, è una nazione che ha un grande culto del «fare»: si buttano nelle cose senza pensarci troppo. Noi invece tendiamo ad essere più prudenti. Questo a volte gli ha creato dei problemi, ma gli ha anche procurato tanti benefici. Lo abbiamo visto anche durante la pandemia. Loro sono culturalmente incapaci di pensare che se c’è un problema la soluzione sia non fare niente, ma nel 2020 è stato così: arriva il Coronavirus e l’unica cosa da fare è non-fare. Per loro questo è inaccettabile, e infatti nella prima fase dell’epidemia hanno pagato un prezzo molto più alto del nostro. Quando però sono arrivati i vaccini e per risolvere il problema è stato tempo di fare qualcosa, il risultato si è visto: gli USA hanno avuto la campagna vaccinale più efficiente al mondo. E questo perché nel fare qualcosa sono imbattibili».
Nell’ultimo anno si è parlato molto anche di politicamente corretto e cancel culture. Ovviamente anche su questo tra Stati Uniti e Italia ci sono grandi differenze: il politicamente corretto in America esiste davvero, mentre da noi potremmo dire che è più che altro di facciata. Tu come vedi questo dibattito nei due Paesi?
«Io credo innanzitutto che le due questioni vadano slegate, anche se nel nostro Paese tendiamo spesso ad accoppiarle. Il politicamente corretto è un approccio alla comunicazione e al comportamento che è finalizzato al rispetto delle persone. Negli USA esiste da tempo perché sono una società con tantissime identità diverse e con una storia molto complessa da questo punto di vista (non dimentichiamo i quattro secoli di schiavitù che hanno avuto).
Poi certo, il politicamente corretto ogni tanto ha raggiunto, e raggiunge tuttora, degli eccessi perché le regole da rispettare sono tantissime e cambiano rapidamente, al punto da non riuscire quasi a stargli dietro. Inoltre le punizioni verso chi non le rispetta sono davvero severe. Questo ha fatto anche sì che, difronte ai cambiamenti in senso egualitario della società, coloro che continuano a considerare inferiori le donne e le persone non bianche abbiano iniziato a vedere nel politicamente corretto il simbolo di come il potere negli USA si stia redistribuendo, a loro discapito naturalmente.
La cancel culture, invece, è un fenomeno sicuramente collegato, ma molto diverso. È l’idea che qualcuno che dice o fa qualcosa di sbagliato secondo i canoni del momento vada cancellato. Non semplicemente criticato, come è legittimo che sia, ma proprio cancellato: in America per queste cose si viene licenziati; se si sono scritti dei libri questi vengono ritirati dal mercato. È una cancellazione vera. È una forma di estrema intolleranza, che rischia però di prendere una piega pericolosa. Anche perché non è un tribunale a prendere queste decisioni, ma le folle. Possiamo considerarle giuste o sbagliate (questo dipende dalle idee di ciascuno), ma si tratta di decisioni che possono essere usate anche in modo strumentale, e questo può diventare un problema.
Accoppiare politicamente corretto e cancel culture è una cosa che si sta facendo molto anche in Italia. A me, però, questo sembra un modo per non affrontare il vero problema, e cioè il fatto che nel nostro Paese il politicamente corretto non esiste e, anzi, chi è politicamente scorretto non solo non viene cancellato, ma viene addirittura premiato ottenendo popolarità, visibilità e a volte anche incarichi di prestigio. Insomma, mi sembrano due cose abbastanza lontane. Così come sono molto lontani i contesti dei nostri due Paesi: la nostra società è ancora completamente bianca e le pochissime contaminazioni multietniche che abbiamo vengono vissute da molte persone come un’invasione. Da questo punto di vista siamo decenni indietro rispetto agli Stati Uniti, che comunque hanno ancora molta strada da fare in questo senso».
Passiamo ora alla politica americana. A cinque mesi dal suo insediamento, che primo bilancio possiamo fare sull’amministrazione Biden?
«Il bilancio ovviamente dipende molto dalle idee, politiche e non, di ciascuno. Non c’è un modo oggettivo di giudicare l’azione di un politico. Sicuramente la campagna vaccinale è andata molto bene, ma appoggiandosi su quanto fatto da Trump nello sviluppo dei vaccini. L’amministrazione Biden, poi, ha varato l’«American Rescue Plan», la più grande misura di welfare dagli anni ’60 ad oggi. Questo ha messo nelle tasche degli americani, soprattutto di quelli più in difficoltà, un sacco di soldi. Se sia stata una scelta giusta, però, dipende dalle nostre idee politiche.
Sicuramente possiamo parlare di un inizio molto ambizioso. Si pensava che Biden sarebbe stato un Presidente moderato, soprattutto in economia, ma fin qui si è dimostrato tutt’altro. Sta anche provando a cambiare un po’ quell’idea, molto americana, secondo cui il Governo può essere soltanto il problema e mai la soluzione al problema. La sua è una scommessa, e non è detto che la vincerà. Può anche darsi che con tutti questi soldi immessi improvvisamente nell’economia cresca molto l’inflazione. Staremo a vedere cosa accadrà.
Il suo modo di agire, però, è quello che lo ha sempre contraddistinto: Biden è un pragmatico. Il fatto che nella sua lunga carriera non abbia mai perso un’elezione, in un Paese che nel frattempo è cambiato moltissimo, è lì a dimostrarlo. Ha sempre avuto la capacità di leggere e riflettere i cambiamenti della società. A cosa questo porterà, però, lo scopriremo nei prossimi anni.
Non dimentichiamo, però, che ci sono anche tutta una serie di questioni su cui Biden e Harris non hanno grandi poteri, se non passando dal Congresso, dove però hanno una maggioranza molto risicata. Su temi come l’immigrazione, le armi o la sanità, che sono le questioni che oggi preoccupano di più gli americani, si trovano con il rischio concreto di non poter mantenere alcune delle promesse fatte in campagna elettorale. E questo per motivi che in parte non dipendono neanche da loro».
A proposito di immigrazione: nei giorni scorsi si è molto discusso di alcune dichiarazioni di Kamala Harris su questo tema. Sintetizzando molto, ha intimato ai migranti di non provare ad entrare negli USA se non attraverso le vie legali. Cosa puoi dirci a riguardo?
«Sicuramente Harris avrebbe potuto usare parole migliori, meno fraintendibili e strumentalizzabili. Ma in sostanza quello che ha fatto è stato ribadire la posizione che il Partito democratico ha sempre avuto nei confronti dell’immigrazione. Non ha detto ai migranti di non venire punto e basta, come invece molti in Italia hanno sostenuto. Ha detto loro che se vogliono andare negli USA devono farlo seguendo le vie legali. Il problema, però, è che le vie legali non sono facilmente accessibili: l’amministrazione Trump ha reso molto difficile entrare (anche legalmente) negli Stati Uniti. In pochi mesi Biden e Harris, per quanto abbiano allargato le maglie, non hanno di certo risolto il problema dell’immigrazione irregolare. Si tratta di un tema molto complesso e delicato e, anche qui, staremo a vedere cosa accadrà nei prossimi mesi».
Adesso una domanda un po’ provocatoria. Fra i membri della sua amministrazione Biden ha scelto anche diverse donne, a cominciare dalla stessa Kamala Harris. Questo è sicuramente un segnale positivo, ma come dobbiamo interpretarlo? Come una scelta dettata dalla loro (indiscussa) competenza o basata più sulla «convenienza» di mettere delle donne in posizioni di potere?
«Sicuramente queste scelte sono state anche una forma di «identity politics». È chiaro che Kamala Harris sia stata scelta anche perché donna, ma è una politica molto competente, con un curriculum di tutto rispetto e all’altezza dell’incarico che le è stato assegnato. Lo stesso vale, ad esempio, per Janet Yellen, la nuova Segretaria al Tesoro. Certamente, almeno in parte, si è trattato di scelte strategiche, ma l’obiettivo di Biden era anche quello di avere un Governo che assomigliasse al Paese che vuole governare, e per riuscirci non poteva appoggiarsi solamente ai soliti maschi bianchi. Così ha formato un Governo variegato, anche nell’identità dei suoi membri.
Questo poi, inevitabilmente, pone anche dei problemi non indifferenti perché quando carichi delle persone di grandi significati simbolici, legati anche alla loro identità, il rischio è quello di privarle di tutta la complessità che la figura di un politico porta con sé. Essere la prima donna in un ruolo, magari anche la prima donna non bianca in un ruolo, crea tutta una serie di aspettative e di pressioni che non sono minimamente paragonabili a quelle del classico uomo bianco, e questo può anche diventare un problema.
Tutto questo, però, a mio avviso è indicativo di un profondo cambiamento che è avvenuto nella società negli ultimi decenni. E credo che valga la pena sottolinearlo. Poniamo anche che dietro queste decisioni ci sia stato un ragionamento esclusivamente cinico, del tipo «scelgo delle donne perché in qualche modo è conveniente». Questa è una notizia pazzesca. Il fatto che oggi in politica, ma anche per un brand, convenga dichiararsi antirazzista, femminista, vicino alla comunità LGBT, è segno di un profondo cambiamento culturale che è avvenuto nelle nostre società. Se oggi candidare una donna alla vicepresidenza è una scelta che in qualche modo paga, quando solo 10-20 anni fa sarebbe stato un modo per assicurarsi la sconfitta e l’oblio, è perché la società è cambiata tantissimo ed è sempre più attenta a questo tipo di tematiche. Questo secondo me è l’aspetto più interessante di tutta questa storia. Poi magari c’è chi se ne approfitta e lo fa solo per ipocrisia, e facciamo bene a parlarne. Ma se siamo qui a discuterne e a porci il problema è perché la società è cambiata moltissimo, e nel giro di poco tempo».
Arriviamo all’ultima domanda. Con l’amministrazione Trump abbiamo visto un’America sempre più isolata sul piano internazionale. Ora Biden sta provando a invertire la rotta, ma credi che ci riuscirà? O dobbiamo prepararci alla fine della leadership globale americana?
«Al momento non possiamo saperlo. Di una cosa però sono certo: non ci aspetta un mondo post-americano. Sicuramente adesso c’è una grande superpotenza in ascesa che è la Cina, quindi dobbiamo prepararci a un mondo senza dubbio diverso, in cui gli Stati Uniti non saranno più l’unica superpotenza. Però non dimentichiamo che la ritirata americana dagli scenari internazionali è iniziata da tempo. Con Trump ha ovviamente accelerato, ma era già in corso da prima. E in parte prosegue anche adesso lasciando dei vuoti che, di volta in volta, vengono riempiti dalla Cina, dalla Russia o anche dalla Turchia.
Ci aspetta sicuramente un mondo anche più complicato, in cui l’America avrà certamente meno potere. Ma il predominio americano, anche culturale, è passato e passa per un sacco di cose che rimarranno: le migliori università sono americane; i premi Nobel anche, e quando non lo sono hanno comunque studiato o insegnato negli USA; c’è stata una pandemia e quasi tutti i vaccini li hanno prodotti aziende americane; i film che guardiamo, gli smartphone e le app che usiamo, i social network, a parte Tik Tok (che però è esploso solo di recente), sono tutti americani. Tutte queste cose rimarranno. Per questo sono convinto che, anche in un mondo diverso e più complicato, gli Stati Uniti continueranno ad avere un ruolo dominante».
E se lo dice Francesco Costa, possiamo fidarci.
Giulia Battista
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