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Lo scorso 9 luglio si è svolta la cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, una delle più importanti e prestigiose università italiane. Un evento istituzionale e celebrativo, che solitamente non suscita particolare clamore o attenzione se non in chi lo vive in prima persona. Questa volta, però, le cose sono andate diversamente. Dopo un iniziale silenzio, in buona parte dovuto all’enorme attenzione dedicata in quei giorni alla finale degli Europei di calcio, il video della cerimonia ha infatti fatto il giro del web, dando poi luogo a numerose discussioni e riflessioni. Il motivo di tanto interesse è stato, in particolare, il discorso tenuto in quell’occasione da tre neolaureate: Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, rappresentanti della Classe di Lettere della Normale e portavoce di un testo corale scritto da 13 studenti.
Nel loro intervento, dopo i dovuti ringraziamenti e la riconoscenza mostrata per quanto appreso nei loro anni alla Scuola, i neodiplomati hanno denunciato tutta una serie di limiti e problemi che, secondo loro, caratterizzerebbero l’Università italiana in generale, e la Normale di Pisa in particolare. In quasi 16 minuti di discorso – interamente riportati nel video sottostante – i normalisti hanno denunciato quello che hanno definito un «processo di trasformazione dell’Università in senso neoliberale». Con questa espressione, sempre più in voga negli odierni ambienti intellettuali, si intende la progressiva trasformazione dell’Università in azienda, secondo un modello basato sulla logica del profitto e finalizzato alla formazione più di efficienti lavoratori che di consapevoli cittadini. Un processo, questo, ricondotto allo sviluppo capitalistico della nostra società e di cui i neodiplomati hanno tratteggiato alcune intrinseche ingiustizie e criticità; un processo inoltre che, a detta loro, la Normale non farebbe «nulla per contrastare, ma tutto per corroborare».
Un vero e proprio «J’accuse», dunque, quello dei neodiplomati 2021, che ha colto di sorpresa la Normale e che, per una volta, ha portato nel dibattito pubblico italiano il tema dell’Università.
«Dopo un confronto durato mesi, se non anni, vorremmo provare oggi a riassumere le contraddizioni che sentiamo […] a spiegare come mai, quando guardiamo noi stessi o quando ci guardiamo intorno, ci è difficile vivere questo momento di celebrazione senza condividere con voi alcune preoccupazioni».
Queste sono tra le parole che aprono il discorso dei neodiplomati. Un discorso certamente severo, ma educato e ben documentato, con cui i neolaureati hanno dato voce al malessere e allo sconforto di migliaia di universitari italiani. Per riuscirci gli è bastato elencare i principali problemi dell’Università italiana: sotto-finanziamento – il nostro Paese investe solamente lo 0,3% del proprio PIL nell’istruzione terziaria –, precarizzazione sistemica e crescente, divario di genere, sociale e territoriale (Nord/Sud).
Sebbene non menzionati nel discorso dei neodiplomati, a questi problemi si aggiungono i limiti strutturali della maggior parte degli atenei italiani: edifici vecchi, spesso dislocati in punti diversi delle città e non sempre raggiungibili con il trasposto pubblico; aule, biblioteche e mense inadeguate al numero di studenti – quasi ogni universitario si è trovato, almeno una volta, costretto a seguire le lezioni sul pavimento, a pranzare nei corridoi e a girare per ore in cerca di un posto in sala studio –; alloggi insufficienti per ospitare tutti coloro che ne avrebbero bisogno. Problemi, questi, che sicuramente non riguardano gli ultra-finanziati «poli d’eccellenza» come la Normale – e che probabilmente per questo non hanno trovato spazio nel discorso dei neodiplomati –, ma che purtroppo coinvolgono la maggior parte degli universitari nel nostro Paese.
Accanto a questi problemi di forma, i neodiplomati hanno poi evidenziato anche alcuni problemi più di contenuto. Tra questi, la standardizzazione della ricerca scientifica, un uso quasi esclusivo della didattica frontale – in cui il Professore si limita ad esporre concetti a una platea di studenti a cui si richiede solamente di recepire informazioni da ripetere poi in sede d’esame – e il conseguente ridimensionamento dell’attività seminariale e laboratoriale. Conseguenze, queste, di quel modello neoliberale denunciato nel loro discorso: un modello improntato alla performatività e all’individualismo, invece che alla formazione e alla collaborazione che la Cultura richiederebbe e dovrebbe promuovere; un modello che spinge alla competitività e all’iperproduttività; un modello che, nascondendosi dietro alla (ormai abusata) retorica della meritocrazia – il famoso «volere è potere» – legittima e alimenta un sistema che «premia i più forti e punisce i più deboli».
Quando il «già detto» diventa virale
Difronte alla popolarità e alla diffusione ottenute dal video dei normalisti, in molti hanno manifestato un certo stupore, sorpresi da come «cose che succedono e si sanno da anni» abbiano potuto suscitare tanta attenzione. Sorvolando su chi ha sostenuto questa posizione al solo scopo di sminuire l’importanza dei problemi sollevati dai neodiplomati, è innegabile che il loro discorso non abbia aggiunto nulla di nuovo al dibattito sull’Università. E sono gli stessi normalisti i primi ad esserne consapevoli.
Il loro merito infatti, nonché il motivo della viralità delle loro parole, non risiede nell’aver scoperchiato chissà quale vaso di Pandora, ma nell’aver agito da catalizzatori: consapevoli della loro posizione di privilegio e della visibilità del palco che avevano a disposizione, hanno fatto da megafono a problemi intrinseci al contesto sociale, culturale ed economico in cui tutti quanti siamo inseriti, e che solo di riflesso investono anche il mondo accademico. È questo che ha colpito e coinvolto le persone: l’essersi riconosciute nelle loro parole, indipendentemente dal vivere o meno l’ambiente universitario. Su questo bisognerebbe soffermarsi e riflettere. Invece, difronte alla denuncia di problemi talmente noti da risultare scontati e ripetitivi, ma non per questo degni di essere affrontati, si liquida il tutto bollandolo come qualcosa di «già detto».
Contro la retorica della meritocrazia
Nel loro discorso i neodiplomati hanno anche più volte contestato la cosiddetta retorica della meritocrazia, ossia l’idea, figlia del mito del «sogno americano», che l’impegno e il sacrificio alla fine paghino sempre, premiando con ciò che desiderano coloro che dimostrano, appunto, di meritarselo. Secondo i normalisti, però, questa narrazione non solo non rispecchierebbe la realtà, ma costituirebbe anche un comodo «alibi» dietro a cui nascondere le storture di un sistema «insostenibile», che alimenta e reitera le diseguaglianze e che genera una «competizione malsana» da cui anche i (pochi) vincitori ne escono «solo a prezzo di anni di malessere». Il loro è un duro attacco nei confronti della Normale, ma, ancora una volta, riguarda l’intera società.
La nostra società, infatti, si fonda saldamente sul mito della meritocrazia, sulla convinzione che vada avanti solo chi lo meriti davvero e rimangano indietro tutti coloro che invece non lo meritino abbastanza. Ma non è così. Non lo è mai stato. Non si può parlare di meritocrazia in una società in cui l’opportunità di ricevere un’istruzione «eccellente» – come quella offerta dalla Normale – è riservata solamente a pochi «fortunati»; in una società in cui l’accesso a determinate posizioni passa anche, se non soprattutto, per il genere di appartenenza e il luogo e la famiglia di origine; in una società in cui avere il tempo di dedicarsi alla propria formazione e di prendersi le famose «mille porte in faccia» è un lusso che solo in pochi possono permettersi. In una società di questo tipo la retorica della meritocrazia è una narrazione tanto falsa quanto ingiusta, che rischia di considerare, e di premiare, come merito quello che in realtà è frutto di un privilegio.
«Quale eccellenza in queste macerie?»
È la frase diventata simbolo del discorso dei neodiplomati, e individua un altro punto cruciale del problema. Del resto, in una società come la nostra, quale spazio potrà mai avere l’eccellenza che con tanto orgoglio la Normale – e simili istituzioni – vanta di garantire? Che valore hanno l’impegno e la competenza in un contesto che non offre reali opportunità di realizzazione? E quale senso possono avere la volontà e la preparazione in una società che, mentre si proclama fieramente giusta e democratica, legittima un sistema iniquo in cui quello che dovrebbe essere la norma è invece un’eccezione riservata a pochi «fortunati»?
Quello che occorre è una profonda rivoluzione, culturale, politica e sociale, che riequilibri la società, colmando in ogni ambito il divario tra l’«alto» e il «basso», tra l’eccezione e la regola. Ma finché fare dell’eccellenza e del privilegio di pochi la normalità di tutti non sarà la priorità del nostro Paese, non cambierà mai niente.
Giulia Battista
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