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Rubano soldi, campano sulle spalle degli altri ed essendo sempre uguali da decenni, tolgono spazio ai giovani. Chi sono? Se fossimo in un qualsiasi programma cabarettistico, la risposta sarebbe scontata: “i politici”. Invece no, parliamo delle cover band. Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi. Con nomi fantasiosi o storpiature degli originali, la costante che infesta tutti i palinsesti “artistici” delle città italiane, da Predoi a Lampedusa (se prescindiamo dalle rassegne col titolo “E…state con noi”) è il proliferare di appuntamenti con le tribute band.
Queen, Pink Floyd, Vasco Rossi, Ligabue, Celentano, Rino Gaetano e Fabrizio De André; ma anche, per i più giovani, Jovanotti, Coldplay, Negramaro e Måneskin. Impossibile non inciampare in qualche happening manieristico in piazza o nei pub. E, si badi bene, non si sta parlando di gruppi di ragazzini alle prime armi, che si cimentano con gli strumenti e con i primi concerti tra un flacone di Topexan e una foto seriosa su Instagram. Quelli possono essere tollerati, se non proprio scusati ed accettati nel consesso musicale.
Proprio qualche giorno fa, a Radio Capital, Little Steven ha rimarcato come le cover siano importanti nella crescita di un musicista: abituandosi infatti a suonare belle canzoni vi è una maggiore probabilità di scriverne di altrettanto belle, una volta presa dimestichezza con armonie e melodie celebri. Non è certo un mistero, d’altronde, che pressoché ogni gruppo famoso abbia iniziato proprio in uno scantinato suonando brani altrui. Il problema su cui vorremmo concentrare queste righe è quello delle tribute band, metastasi della categoria che vede i protagonisti impegnati nella riproduzione dei successi di un solo gruppo o artista, ulteriormente aggravata a volte dall’ imitazione timbrico-somatica.
Come funziona, in genere, una tribute band
È tutta una questione, per citare Stendhal, di egotismo. Esiste un cantante, il cui Sé non ha subito le dovute limitazioni spaziali (di regola parliamo di figli unici), che un giorno decide che quella che ad un occhio distratto potrebbe sembrare una sana passione per la musica, è in realtà un dono divino. Il cantante in questione, infatti, non è un dilettante come ce ne sono a migliaia, ma è la reincarnazione di questo o quell’artista di fama (anche se non è ancora morto), e ciò lo spinge ad intraprendere una strada ben delineata, consistente nella riproduzione pedissequa delle gesta del suo pigmalione. Il suddetto si circonderà poi di musicisti ad hoc, e non è raro trovare strumentisti di spessore ad esibirsi alla Sagra della Frisella sulle note di “Serenata rap”.
Come lavora una tribute band
Il funzionamento è abbastanza semplice, si tratta di copiare in tutto e per tutto l’artista/gruppo di riferimento. A volte, musicisti di conservatorio, riescono ad umiliarsi correndo ad acquistare persino le stesse chitarre e gli stessi pedali degli artisti che emulano (soprattutto i chitarristi delle cover band dei Pink Floyd), ma i risultati non per questo sono sempre fedeli all’originale. Molti infatti, sottovalutano l’elemento “umano” di un gruppo musicale, il tocco, la sensibilità artistica, l’emozionalità collegata ad un assolo o un acuto, cosa a cui spesso si cerca di sopperire con l’abbigliamento. La risultante è paradossale soprattutto in casi specifici come le cover band dei Litfiba. Pantaloni di pelle su corpi non proprio esili e HUAAA buttati a caso costituiscono un elemento da tenere in considerazione qualora dovessimo trovarci a spiegare a qualcuno il concetto di “ridicolo”.
Perché lavora una tribute band
Se post-Covid abbiamo assistito in grande al tracollo della musica dal vivo, con alcuni locali che hanno chiuso ed altre vere e proprie istituzioni come il Circolo Magnolia in serie difficoltà, possiamo ben immaginare la fatica fatta dai piccoli locali e pub nell’organizzare una serata musicale. A ciò si somma una diffusa indifferenza per la musica dal vivo in determinate circostanze come quelle di un lounge bar, ad esempio. I gestori, infatti, sono più interessati ad un discorso di “intrattenimento”. Un semplice contorno musicale che, una volta tanto, sostituisca le playlist di Spotify o Youtube in filodiffusione. In tale ambito, è più facile proporre musica “conosciuta” in luogo di proposte inedite e/o sperimentali. Sommando a ciò anche una relativa economicità (spesso – soprattutto i più giovani – si accontentano di 50€ più panino e birra) si ben comprende il successo ed il proliferare delle tribute band.
Cover band, cover band ovunque
Il passo, fra l’intrattenimento a basso costo che una cover band può regalare a una serata di provincia e l’intrattenimento presunto puro, è breve. Se nelle feste è praticamente obbligatorio scritturarne un paio – Madonna che canta “Like a Virgin” a costo zero alla sagra del tartufo di Sant’Agata Feltria non ha, appunto, prezzo –, è vero anche che oggi sembra diventata una vera moda. In realtà, Rai Uno aveva già intercettato la tendenza un decennio fa, anche nella sensazione generale di ridicolo imbarazzo. Stiamo parlando, ovviamente, di “Tale e Quale Show”, condotto dall’inossidabile Carlo Conti. Tra l’altro, i primi promo facevano leva proprio sull’avere grandi superstar tutte insieme, senza fatica. E, come nelle suddette rassegne e sagre, queste rock e pop star erano impersonate da personaggi “famosi” in imitazioni timbrico-somatiche spesso discutibili. Quest’anno ci ha provato anche Mediaset, con “Star in the Star”. Questo mix fra “Tale e Quale Show” e “Il cantante mascherato”, però non ha funzionato e chiuso in anticipo. È l’inizio della fine della tribute band in generale? Probabilmente no. Anzi, la perfezione di questo pacchetto non scadrà mai. Non quando un pubblico di pensionati si esalterà come se davanti a loro ci fosse il vero Bobby Solo.
Mario Mucedola, Alessandro Mambelli
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